Recensione di Antonio ELIA
Parlare di Avanti va il mondo, di László Krasznahorkai (Bompiani 2024) è oltremodo impegnativo e complesso. Si tratta di una raccolta di testi che non sono semplici racconti ma anche esplorazioni dell’animo umano e dell’esistere, indagini sul rapporto tra l’uomo e la realtà, il trascendente, l’immaginazione, il tempo, il ricordo, il desiderio, la libertà e altro ancora. Sono l’una e l’altra cosa insieme e nel complesso rappresentano una critica lucida e feroce del nostro tempo.
L’opera è divisa in tre parti in cui il “Lui” (l’Autore? Un Profeta?) che le anima, nella I Parla, nella II Racconta e nella III Saluta.In ognuno dei 9 testi di cui si compone la prima parte, Krasznahorkai “parla” ed esprime pensieri e sentimenti, manifesta opinioni, fotografa l’incapacità degli umani di comprendere la propria condizione, l’ambizione di desiderare e di volere ignorando la realtà attuale, la cupidigia dell’avere e la difficoltà di apprezzare le relazioni e la bellezza.
La seconda parte in cui “racconta” comprende 11 testi che, ad eccezione dell’ultimo, narrano in terza persona fatti e situazioni emblematiche esemplificanti la stranezza dell’esistenza, sempre mutevole, cangiante, incerta nei suoi esiti, incomprensibile e insondabile. L’ultimo, intitolato Il cigno di Istanbul, è un non testo di “79 paragrafi su pagine bianche” dedicato al ricordo (senza parole) del poeta greco Konstantinos Kavafis.
La terza parte in cui “Lui” saluta consiste in una paginetta di congedo, intitolata Non voglio nulla da qui, in cui il narratore afferma di volersene andare senza portar niente con sé. Segue un elenco di ciò che lascia.
Inoltrarsi nella lettura di questo libro è un’esperienza impegnativa: a prima vista sembra respingerti, ti disorienta con la complessità della struttura e l’astrattezza del linguaggio, ti impegna in un corpo a corpo per penetrare i significati e le connessioni, per individuare il sottinteso del testo, i riferimenti culturali; richiede, insomma, un’immersione totale sotto la superficie della scrittura per farne emergere i significati e il senso. È un lavoro, un impegno che però ti ripaga, ti restituisce orizzonti e visioni inediti e brillanti, sguardi e punti di vista insoliti e inattesi, conclusioni spiazzanti che vanno oltre il conformismo dilagante, oltre la pigrizia delle narrazioni rassicuranti.
Rispetto ai grandi romanzi (Satantango, Melancolia della resistenza, tra gli altri) che hanno reso celebre l’autore, Avanti va il mondo si pone su un piano differente.
Se nei romanzi lo sguardo dello scrittore indaga e analizza realtà e situazioni specifiche (l’assenza di prospettive, la fatalistica attesa, l’inazione che in “Satantango” paralizzano i superstiti della comune agricola in sfacelo da cui non hanno la forza di allontanarsi; la lotta tra desiderio di rinnovamento e volontà distruttiva sorretta da pratiche nichilistiche e catartiche, durante il periodo della Perestroika, che in Melancolia della resistenza oppone tartufi e gattopardi) traendone significati che superano gli angusti confini della realtà contingente; in Avanti va il mondo Krasznahorkai indaga tematiche universali che riguardano il Tutto, il senso del mondo, la comprensione di esso, la complessità della realtà, la conoscenza, le relazioni, l’essere e l’avere, tutte quelle domande fondamentali sulle quali da sempre si sono esercitati i filosofi.
Il suo sguardo, in questa cavalcata fluida e magmatica, non è per niente benevolo. Esso osserva e denuncia le manchevolezze degli uomini, gli errori percettivi, l’ingannevole razionalità, l’impossibilità di comprendere il senso dell’esistenza, l’immutabilità della condizione umana, l’inesprimibile complessità della realtà, l’impossibilità di conoscere il vero impulso che muove il mondo, l’inganno della fede e degli “dei” (prodotto delle nostre paure, dell’esigenza di gestirle), e via elencando.
Una visione negativa e sfiduciata si direbbe, una totale mancanza di fiducia nell’umanità, in questa umanità prigioniera delle sue stesse paure e dei suoi demoni, incapace di elevarsi oltre i meri interessi materiali, le chimeriche certezze del possesso e della condizione sociale.
In questo panorama di solitudine e disperazione Krasznahorkai sembra tuttavia intravedere (così mi pare) un barlume di speranza capace di riscattare l’umanità. Lo individua in diversi momenti, quasi come una possibilità remota, difficile da realizzare in concreto, ma pure esistente e capace di affermarsi. In ogni caso mi piace pensarlo.
Provo a elencarli con brevi espressioni e col riferimento ai testi che li richiamano: la compassione (Al più tardi a Torino); la ribellione (La costante di Teseo); la rinuncia alla proprietà (La costante di Teseo, Non voglio nulla da qui); la capacità di ascolto (Cento persone in totale); l’amicizia (Banchieri); e infine la poesia, nel testo senza parole dedicato a Konstantin Kavafis (Il cigno di Istanbul).
Dal punto di vista stilistico la scrittura di Krasznahorkai, è densa, fluviale, un fiume di parole senza soluzione di continuità che avvince il lettore e lo incanta per la scioltezza e la ricchezza del linguaggio, la luminosità delle espressioni e la profondità dei significati. Una lettura certamente impegnativa, ricca di suggerimenti e di suggestioni che ad ogni passo ti restituisce affreschi splendidamente dipinti, raffigurazioni inedite, e alla fine ti lascia con un inderogabile desiderio di rileggere ogni singolo passo (e rileggere, e rileggere…), di scavare più a fondo negli strati della scrittura, per scoprirne di nuovi o comprenderne meglio i significati.
Chiuso il libro ti rimane una sensazione di spaesamento, un senso di inadeguatezza per aver compreso che, in fondo, l’umanità ha perso “il desiderio di conoscere” per rincorrere l’ “elementare desiderio di possedere”, la “tendenza alla gratificazione istantanea”, e che per questo è “costretta a vivere nella terrificante assenza di ideali”. Ti senti “preso dalla vertigine tra la dolcezza mortale della tristezza e il bisogno immediato di ribellarti”.
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