Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin.
Un
bel libro, un capolavoro. L’ho tenuto lì, nel mio e-reader, troppo a lungo,
diffidente se davvero ne valesse la pena. Sapevo quanto lo avesse apprezzato W.
Benjamin e poi dopo di lui un po’ tutti i grandi scrittori americani postmoderni
che amo, da D.F. Wallace a Don Delillo a T. Pynchon, tuttavia non riuscivo a
decidermi.
Il romanzo di Döblin è un capolavoro
davvero, di quelli che non sentono l’usura del tempo perché il tempo lo segnano
con la loro presenza e indicano anche la strada per conquistare il futuro. Ci
sono tre ottimi motivi per apprezzarlo; e non sto parlando della storia narrata.
Quella è avvincente, ti prende per mano e ti guida nei meandri di una città
complicata (com’era la Berlino del primo dopoguerra), appassionandoti alla
vicenda di Franz Biberkopf, appena uscito da prigione, che lotta contro la sua
stessa natura e si scontra con il mondo che conosce nel vano tentativo di
vivere una vita onesta. Non ci riesce; non ci può riuscire; forse alla fine
della storia si illude di essere un uomo nuovo, mentre è solo un relitto parcheggiato
in una fabbrica come aiuto portiere.
La città, Berlino, è il primo protagonista
del romanzo: le vie e le piazze, l’Alexanderplatz intorno alla quale la storia
si avvolge e ritorna quando se ne allontana, hanno il respiro pulsante del
tempo, mentre il tempo le cambia, le sventra per soddisfare il bisogno di
cambiamento, superare le arretratezze dell’età guglielmina e dimenticare
finalmente gli stenti e gli orrori della guerra.
All’interno della città sta quell’umanità
sofferente e pur vigorosa che Döblin dipinge con tratti così sapienti e netti
da non lasciare illusioni sul suo destino. Non è tuttavia, quello dipinto da Döblin,
solo l’affresco di un sottoproletariato malavitoso che organizza la sua
difficile esistenza ai margini della legge; Döblin va oltre il naturalismo di
Zola, ci consegna descrizioni e immagini che hanno lo stesso impatto dei
disegni di George Grosz e dei film di Sergej
M. Ėjzenštejn, illustra la fine di un’epoca, la crisi di una società statica e
le speranze che quella crisi alimenta, e i dibattiti, le discussioni, le
proteste che animano la breve e sfortunata esperienza della repubblica
weimariana, e anche gli incubi e i mostri che covava nel suo ventre.
Il richiamo a Ėjzenštejn
ci aiuta a comprendere anche il terzo motivo di grandezza del romanzo.
Ėjzenštejn è stato
un pioniere della tecnica del montaggio cinematografico, ed è proprio questo il
modello al quale Döblin si è ispirato nell’organizzare
la sua scrittura. Egli supera la linearità ottocentesca del raccontare e inaugura
un modello del tutto nuovo in cui la vicenda raccontata è intervallata dai
pensieri dei personaggi, dalle riflessioni dell’Autore, da flashback, da
notizie estratte dai giornali (che a volte possono anche sembrare fuori luogo e
che invece compongono lo sfondo della stessa vicenda narrata), da brani tratte
dalle sacre scritture (in funzione, spesso, di anticipazione o di chiosa degli
eventi narrati), da ritornelli di ballate e canzoni che interpretano le
sensazioni dei protagonisti o lo spirto del momento.
Una scrittura moderna che richiama in
qualche modo quella dell’Ulysses di Joyce, che si avvale di strumenti mutuati
dalla cinematografia, dalla psicanalisi, che usa una pluralità di registri
espressivi; una scrittura che dà al microcosmo inquadrato dalla penna del
narratore un respiro ampio, epico si potrebbe dire, perché travalica i limiti
del contingente e illustra l’identità di un periodo, di un popolo.
Per tutto ciò il “Berlin Alexanderplatz” di Alfred Döblin è un capolavoro, e per questo
ne consiglio la lettura. Ne vale davvero la pena.
Nessun commento:
Posta un commento