lunedì 4 luglio 2016

Recensione di Antonio ELIA


Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin. 
Un bel libro, un capolavoro. L’ho tenuto lì, nel mio e-reader, troppo a lungo, diffidente se davvero ne valesse la pena. Sapevo quanto lo avesse apprezzato W. Benjamin e poi dopo di lui un po’ tutti i grandi scrittori americani postmoderni che amo, da D.F. Wallace a Don Delillo a T. Pynchon, tuttavia non riuscivo a decidermi.
Alla fine me lo sono imposto e ne sono stato ripagato a usura.
Il romanzo di Döblin è un capolavoro davvero, di quelli che non sentono l’usura del tempo perché il tempo lo segnano con la loro presenza e indicano anche la strada per conquistare il futuro. Ci sono tre ottimi motivi per apprezzarlo; e non sto parlando della storia narrata. Quella è avvincente, ti prende per mano e ti guida nei meandri di una città complicata (com’era la Berlino del primo dopoguerra), appassionandoti alla vicenda di Franz Biberkopf, appena uscito da prigione, che lotta contro la sua stessa natura e si scontra con il mondo che conosce nel vano tentativo di vivere una vita onesta. Non ci riesce; non ci può riuscire; forse alla fine della storia si illude di essere un uomo nuovo, mentre è solo un relitto parcheggiato in una fabbrica come aiuto portiere. 
La città, Berlino, è il primo protagonista del romanzo: le vie e le piazze, l’Alexanderplatz intorno alla quale la storia si avvolge e ritorna quando se ne allontana, hanno il respiro pulsante del tempo, mentre il tempo le cambia, le sventra per soddisfare il bisogno di cambiamento, superare le arretratezze dell’età guglielmina e dimenticare finalmente gli stenti e gli orrori della guerra.
All’interno della città sta quell’umanità sofferente e pur vigorosa che Döblin dipinge con tratti così sapienti e netti da non lasciare illusioni sul suo destino. Non è tuttavia, quello dipinto da Döblin, solo l’affresco di un sottoproletariato malavitoso che organizza la sua difficile esistenza ai margini della legge; Döblin va oltre il naturalismo di Zola, ci consegna descrizioni e immagini che hanno lo stesso impatto dei disegni di George Grosz e dei film di Sergej M. Ėjzenštejn, illustra la fine di un’epoca, la crisi di una società statica e le speranze che quella crisi alimenta, e i dibattiti, le discussioni, le proteste che animano la breve e sfortunata esperienza della repubblica weimariana, e anche gli incubi e i mostri che covava nel suo ventre.
Il richiamo a Ėjzenštejn ci aiuta a comprendere anche il terzo motivo di grandezza del romanzo.
Ėjzenštejn è stato un pioniere della tecnica del montaggio cinematografico, ed è proprio questo il modello al quale Döblin si è ispirato nell’organizzare la sua scrittura. Egli supera la linearità ottocentesca del raccontare e inaugura un modello del tutto nuovo in cui la vicenda raccontata è intervallata dai pensieri dei personaggi, dalle riflessioni dell’Autore, da flashback, da notizie estratte dai giornali (che a volte possono anche sembrare fuori luogo e che invece compongono lo sfondo della stessa vicenda narrata), da brani tratte dalle sacre scritture (in funzione, spesso, di anticipazione o di chiosa degli eventi narrati), da ritornelli di ballate e canzoni che interpretano le sensazioni dei protagonisti o lo spirto del momento.
Una scrittura moderna che richiama in qualche modo quella dell’Ulysses di Joyce, che si avvale di strumenti mutuati dalla cinematografia, dalla psicanalisi, che usa una pluralità di registri espressivi; una scrittura che dà al microcosmo inquadrato dalla penna del narratore un respiro ampio, epico si potrebbe dire, perché travalica i limiti del contingente e illustra l’identità di un periodo, di un popolo.
Per tutto ciò il “Berlin Alexanderplatz” di Alfred Döblin è un capolavoro, e per questo ne consiglio la lettura. Ne vale davvero la pena.

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