INFINITE JEST VENT'ANNI DOPO
Dialogo con Raffaello Palumbo Mosca a cura di Alberto Comparini
Pubblicato sul blog "LE PAROLE E LE COSE " da Claudia Crocco il 31 maggio 2016
David F. WALLACE
«I am seated in an
office, surrounded by heads and bodies. My posture is consciously
congruent to the shape of my hard chair. This is a cold room in
University Administration, wood-walled, Remington-hung, double windowed
against the November heat, insulted from Administrative sounds by the
reception area outside, at which Uncle Charles, Mr. deLint and I were
lately received.
I am in here» (p. 3)
AC: We are still here, aggiungo io – siamo qui, noi lettori, a rileggere e interrogarci su Infinite Jest
a vent’anni dalla sua pubblicazione. Fin dalla prima pagina, Wallace
crea uno spazio narrativo in cui lettore e autore sono chiamati ad
interagire: «I am seated in an office», «I am in here»: e noi dove
siamo?
RPM: Ricordo
perfettamente la prima volta che lessi quelle parole, alla Feltrinelli
di Genova, un tardo pomeriggio del 2000. Non conoscevo Wallace, e avevo
aperto il libro per caso. Rimasi folgorato, e quella sera me ne andai a
casa con Infinite Jest e con Brevi interviste con uomini schifosi,
che era tutto ciò che avessero in negozio in quel momento. Ma torno
subito alla tua citazione. Hai ragione a dire che Wallace richiede
immediatamente la collaborazione del lettore: la descrizione che Hal fa
di sé stesso, degli oggetti e dell’ambiente che lo circondano, del
vestiario dei tre Decani, è insieme precisa e misteriosa. Misteriosa
perché ancora non conosciamo nulla di Hal e della sua storia, solo
percepiamo confusamente che siamo in un mondo non perfettamente in
quadro. Ma è anche assolutamente nitida, come la lenta carrellata di una
cinepresa che bandisce ogni soggettività. Ma – qui sta il punto – è una
descrizione troppo precisa, talmente nitida da apparire
disumanizzata. È per questo che comunica immediatamente un senso di
straniamento. Questo, naturalmente, anticipa ciò che poi conosceremo
come uno dei tratti fondamentali di Hal, vale a dire la sua particolare
forma di alienazione. Quel giorno alla Feltrinelli, alla prima lettura,
mi parve di essere stato trasportato dentro una stanza ovattata – quella
stanza è ovviamente la mente di Hal – o sulla luna. O di essere
precipitato negli spazi siderali. Ecco, se mi permetti un’ultima
notazione un po’ impressionistica, Infinite Jest è un buco nero nel quale si precipita; uno spazio a lato
del mondo reale che richiede un’immediata operazione di mappatura da
parte del lettore. Dico uno spazio a lato, o comunque vicino al mondo
reale perché il mondo che ci viene presentato è immediatamente
riconoscibile: la scrivania, i doppi vetri, la reception, sono tutti
elementi consueti e realistici (anche se descritti in modo
iperrealistico). Eppure è anche evidente che c’è una sfasatura tra le
leggi che governano il mondo ‘reale’ e quelle che invece regolano il
mondo di Hal. Quasi impercettibilmente il lettore è entrato in quel
mondo e ne deve accettare le regole. Accade lo stesso con Kafka. E
proprio Kafka, secondo me, è un punto di riferimento importante per
Wallace (e per comprenderne la scrittura).
Noi dove siamo? Noi siamo qui a
rileggere Wallace ancora una volta. È quello che succede con i grandi
autori. L’importante è, secondo me, provare a rileggerlo criticamente,
senza le mitizzazioni che – lo dico senza alcun intento polemico – hanno
talvolta caratterizzato la sua ricezione italiana. Wallace, insieme a
pochi altri (Bolaño, ad esempio), è stato immediatamente canonizzato; è
necessario che l’entusiasmo iniziale – giustificatissimo per altro – non
escluda l’occhio critico.
AC: Vorrei rimanere
ancora un attimo su questa pagina di Wallace, ché, oltre a chiamarci e
parlarci direttamente, Hal imposta la narrazione su di un piano
fortemente iper-realistico, come giustamente hai notato. Eppure, non
trovo solamente figurativo l’uso che hai fatto della suggestione
impressionistica, anzi; certo, non ci troviamo di fronte a un
impressionismo visivo, bensì psicologico: che rapporto c’è, dunque, tra
questa esigenza del dettaglio e la sfasatura che sussiste tra il piano
della coscienza e quello della realtà?
RPM.: Le due cose, in
questo brano, esistono l’una per l’altra; non c’è – non ha senso – la
descrizione iperrealistica senza l’impressionismo psicologico, e
viceversa. Noi cadiamo nel buco che la mente di Hal è, esattamente
perché lui è in grado di descrivere sé stesso e gli altri in maniera
così dettagliata. Sono gli aggettivi a farci immedesimare in Hal, a
farci immediatamente percepire quello che lui percepisce (the hard chair, the cold
room, e così via). Senza una aggettivazione così marcata la descrizione
della stanza sarebbe stata semplicemente realistica, quasi
ottocentesca. Wallace informa il lettore sulla forma degli oggetti, sul
materiale del quale sono composti, sulla loro provenienza (comunissimo
sarà per tutto il romanzo indicare la marca degli oggetti): potrebbe
essere Balzac – penso ad esempio ai vestiti di Lucien nelle Illusioni perdute,
alla stanza nella quale vive con la sua amante Coralie – ma ovviamente
la descrizione di Wallace è iper-realistica e soggettiva. Non è la
descrizione di un ambiente ma l’esperienza di una percezione. Se il
realismo tende alla oggettività, l’iper-realismo tende alla distorsione,
alla soggettività portata all’estremo. È per questo che Hal non parla
di persone ma di “teste e corpi”.
Ancora: Hal vede sé stesso dal di fuori,
come fanno gli schizofrenici: “my posture is consciously congruent to
the shape of my hard chair”. Noi guardiamo Hal allo stesso momento dal
di dentro e da fuori. Ovvero: noi siamo diventati Hal che guarda sé
stesso. Il senso di straniamento è aumentato dai suoni, appena
percettibili, che Hal sente o immagina di sentire dalla reception. (Per
questo, probabilmente, ho evocato una stanza ovattata).
AC: Mi viene in mente il saggio di DFW, ‘E Unibus Pluram’: Television and U.S. Fiction, pubblicato nel 1993 su «The Review of Contemporary Fiction», che precede di tre anni Infinite Jest, ma di cui è evidentemente una forma in nuce.
Inevitabile, dunque, associare l’iperrealismo di Foster Wallace al
potere evocativo e immaginativo della televisione, dalla quale escono
“teste e corpi” ipersoggettivi. Qual è la postura di Hal nei confronti
di questi figuranti e come evolve, fin dalla prima pagina, la narrazione
(descrittiva e diegetica) del romanzo in rapporto alla produzione
infinita di storie della televisione?
RPM: È una domanda
molto bella; e molto complessa: per rispondere in modo esaustivo
occorrerebbe lo spazio di un saggio. Cercherò però di rispondere almeno
parzialmente. E Unibus Pluram è certo un saggio essenziale, e
che deve essere letto insieme all’intervista che – nella stessa sede –
in parte lo integra. Il cuore pulsante del saggio è, secondo me, nella
critica dell’ironia come tecnica onnipervasiva di una certa letteratura
(che per comodità, e con un’approssimazione, chiamiamo postmoderna) e
soprattutto come atteggiamento esistenziale. L’ironia come processo
distanziante alla fine si rivela essere un meccanismo di difesa dalla
brutalità del reale, dalla fragilità che inerisce l’essere umano.
L’iperrealismo del romanzo, allora, non è solo specchio
dell’iperrealismo televisivo, ma anche e soprattutto una sua critica. Lo
è nella misura in cui – parafraso qui Wallace stesso nell’intervista
con Mc Caffery – non mira semplicemente ad intrattenere il suo pubblico
rassicurandolo nelle sue (infantili) aspettative, ma ricerca un contatto
con una realtà, spesso dolorosa, che è anche, per usare un termine di
Adorno, apparition, ovvero urto, irruzione dell’impensato
all’interno del conosciuto. Allo stesso modo l’ironia dispiegata a piene
mani per tutto il testo, è in realtà una meta-ironia, ovvero un’ironia
che colpisce l’atteggiamento ironico stesso per decostruirlo. Wallace
vuole bucare lo schermo ironico. Come Hal, è convinto che «ciò che passa
per una cinica ed elegante trascendenza del sentimento non è altro che
una specie di paura di essere veramente umano», ed essere veramente
umano «vuol dire essere inevitabilmente sentimentale e ingenuo e portato
alle sdolcinatezze e generalmente patetico» (Wallace 2000, 924).
AC: ironia, oppure ‘eironèia’, come recita la sua etimologia greca, dunque finzione. Quando deve fingere
Hal per diventare, o semplicemente essere, umano? E quali sono le
conseguenze sul piano narrativo e su quello estetico in questa ricerca
finzionale dell’identità e della realtà in Infinite Jest?
RPM: In Infinite Jest, l’ironia è esattamente finzione, è una finzione di sé o, più precisamente, una maschera che si indossa per essere cool. È uno dei passaggi più citati di Inifnite Jest:
“Risulta piuttosto interessante notare che il mondo delle arti degli
U.S.A. di fine millennio considera fighe e giuste l’anedonia e il vuoto
interiore”. Questa arte, continua Wallace, è consumata e studiata dai
giovani “per capire come essere fighi e giusti” e, in definitiva, per
“Non Essere Soli”. L’ironia è dunque la maschera, riflette Hal, che
indossiamo perché abbiamo paura di “essere veramente umani”, il che
significa “essere inevitabilmente sentimentali e ingenui e portati alle sdolcinatezze e generalmente patetici”.
Sembrerebbe tutto facile e lineare, sembrerebbe un semplice gioco di
opposizione: ironia e vuoto interiore contrapposti ad un vero sé che si
cela per essere accettati dal gruppo. Ancora Wallace: “Lasciamo perdere
la pressione-dei-coetanei. Si tratta piuttosto di fame-dei-coetanei.
No? Entriamo nella pubertà spirituale quando giungiamo alla conclusione
che il grande orrore trascendentale è la solitudine, l’esclusione,
l’ingabbiamento dell’anima. Una volta arrivati a questa età, daremo e
accetteremo qualsiasi cosa, indosseremo qualsiasi maschera per essere a
posto, per far parte di qualcosa, per non essere Soli, noi giovani. Le
arti U.S.A. sono la nostra guida per essere ammessi nel gruppo. Un
Manuale”. Ma questa opposizione tra la maschera ironica, il vuoto
interiore, l’anedonia, e un vero sé, è troppo semplice. Perché poi,
questo vero sé, almeno per come viene descritto Hal, è esso stesso un
“vuoto”. Hal è, lo si ripete più volte nel corso del romanzo, “empty
inside”. Eppure questo essere vuoti del ‘vero sé’ è già un sentimento. O una patologia, come mostra emblematicamente il personaggio di Kate Gombert poco più avanti; è “depressione clinica o depressione involutiva o disforia unipolare”. Abbiamo quindi un vuoto (vero e sofferente) che finge un altro vuoto (falso e cool).
È necessario trovare una terza via tra l’abbandonarsi al vuoto vero e
sofferente che ci esclude dal contatto con gli altri (e dal loro
dolore), come accade, ad esempio, alla Persona Depressa del racconto
omonimo, e l’assunzione della maschera-finzione del vuoto suggerita (se
non imposta) dalla società dei consumi. La terza via non può che essere
un’ulteriore maschera o finzione, che non ha però, a questo punto,
carattere negativo, perché è una costruzione di sé nella relazione con l’altro. Questa è, mi sembra, la pars construens della critica di Wallace all’ironia, della sua riflessione sul rapporto tra identità e società.
AC: Il rapporto tra identità e società in Infinite Jest passa
necessariamente attraverso la moltitudine di figure che popolano
l’universo di Foster Wallace: che rapporto instaura Foster Wallace con i
suoi personaggi, intesi questi come personae (maschere) e characters (dunque personaggi, dotati di ‘caratteri’)?
RPM: In un saggio apparso nel Sunday Book Review del New York Times (16 febbraio 2016) Tom Bissell ipotizza che Infinite Jest
rimanga un libro cruciale anche a vent’anni dalla sua uscita perché è
un romanzo nel quale i personaggi sono tutti – maggiori e minori –
ugualmente ‘rotondi’ (round – è la celebre definizione di Forster in Aspects of the Novel).
Anche i personaggi minori sono sfaccettati e complessi, e Wallace “si
assume l’impegno quasi metafisico di vedere la realtà attraverso i loro
occhi”. Sono d’accordo: nonostante il narratore di Infinite Jest
sia onnisciente e quindi la focalizzazione, dal punto di vista della
sua totalità, sia sempre zero, come ha notato Ercolino nel suo (davvero
ottimo) Il romanzo massimalista, la focalizzazione cambia “di
unità narrativa in unità narrativa, e talvolta anche all’interno di uno
stesso frammento”. Questa notazione è importante perché ci aiuta a
capire come Wallace riesca nello stesso tempo a creare un legame forte
tra lettore e personaggio, a stimolare il processo empatico – un
processo empatico che è prima di tutto tra l’autore e i suoi personaggi
(da qui anche il frequente uso dell’indiretto libero), e che
naturalmente si trasmette al lettore. Allo stesso tempo, tramite un
narratore onnisciente, Wallace riesce a preservare l’architettura del
romanzo, a creare un ordine dall’alto; per quanto disperso in mille
rivoli e in mille micro-storie, per quanto enciclopedico e corale (sto
qui facendo miei una serie di aspetti che Ercolino indica come
costituitivi non solo di Infinite Jest ma del ‘romanzo
massimalista’ in generale), la narrazione non si perde nei suoi
frammenti, ma obbedisce ad un ordine superiore. È quella cattedrale di
cui ha parlato Proust per la Recherche.
Questo dinamismo della focalizzazione è
anche, mi pare, ciò che permette a Wallace di trattare i suoi personaggi
insieme come esseri umani singolari e differenziati, dotati di
sentimenti, reazioni e ‘caratteri’ propri, e nello stesso tempo
preservare il nucleo teorico fondamentale del romanzo, ovvero proprio
l’investigazione del rapporto tra individuo e società contemporanea. In
questo senso ogni personaggio è insieme sé stesso ma anche una posizione
paradigmatica all’interno del discorso autoriale che mette al centro il
potere alienante della realtà sociale contemporanea. Prova ne sia che
praticamente tutti i personaggi di Infinite Jest mostrano un qualche tipo di alienazione, ma la mostrano in modo personale.
AC: questa struttura
narrativa, di cui narratore, lettore e personaggi si fanno carico, che
immagine riflette della società contemporanea? Giustamente citi
Ercolino, ma a me viene (anche) in mente Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo di Fredric Jameson (1991), la versione accademica di Infinite Jest.
RPM.: Premetto che
secondo me un romanzo non deve solo, o semplicemente, riflettere la
società; o la cosiddetta (e sempre sfuggente) “realtà”. Al di là di ogni
dichiarazione più o meno esplicita, nemmeno la Comédie Humaine
fa questo. È ovviamente l’aggettivo “umana” l’elemento sul quale porre
l’accento: mi interessa la società francese di metà Ottocento, ma
soprattutto mi interessa Lucien de Rubempré, mi interessa Jacques
Collin, e così via. Questo per dire due cose: a contraggenio rispetto
alle neoavanguardie novecentesche, credo che il genere-romanzo non possa
fare a meno del personaggio. Il romanzo non è per me il genere della
finzione, ma il genere del personaggio. (E per questo tendo ad
allargarne i confini, includendo – un po’ come fa l’ultimo Cercas,
quello de Il punto cieco – anche molti scritti di cosiddetta
non-fiction). Come Ortega Y Gasset, anche io credo che il compito del
romanziere sia innanzi tutto creare “fauna spirituale”.
Ma questo anche per dire che, a rigore, non esiste “la società” nemmeno in Infinite jest;
esistono – vivono nella pagina – una serie di personaggi che reagiscono
ad un esterno e ad un interno, che noi per convenzione chiamiamo
società e situazione psicologica, o carattere. Io vedo una
costellazione, con tutte le forze che la regolano. E questa
costellazione è fatta, in Infinite jest, di personaggi-astri
che da una parte si sentono atomizzati (l’anedonia, la solitudine,
etc.), dall’altra a solitudine e anedonia non sono dati a-priori, ma reazioni
ad un esterno col quale i personaggi sono profondamente connessi. A
mano a mano che “dispongono storia intorno a sé” (per usare
l’espressione di un memorabile saggio di Giorgio Ficara), i personaggi
finiscono per formare l’immagine di una società. Ma c’è anche un’altra
società, un esterno con tutte le sue leggi e convenzioni più o meno
costrittive, che sembra essere dato, indipendente dalla volontà e dalle
azioni dei singoli. Questo esterno è il risultato ingovernabile e
caotico di tutte le azioni individuali, o delle azioni mirate di pochi
potenti? Come in ogni distopia, anche in Infinite jest si
respira un’aria da teoria del complotto probabilmente non lontana dal
vero. Creare un personaggio è anche un misurare la distanza tra il
piccolo mondo del singolo e le leggi che governano il vivere associato. È
un metro dell’impotenza e della solitudine del singolo.
Per quanto riguarda, invece, il
riferimento al saggio di Jameson: l’accostamento mi pare tutt’altro che
azzardato. Entrambi – in modi differenti – sono geniali interpretazioni,
o diagnosi, del rapporto io-mondo così come lo conosciamo oggi. In
mancanza di riferimenti testuali precisi, che non so se ci siano e in
ogni caso io non sono in grado di fornire, preferisco limitarmi a
segnalare, con te, una certa ‘aria di famiglia’ fra i due testi.
AC: vorrei insistere,
in chiusura, su questo accostamento tra Jameson e DFW, relativamente
alle tue bellissime definizioni di ‘romanzo come genere del personaggio’
e alle ‘leggi che governano il vivere associato’. La chiave di volta,
per quanto mi riguarda, sono le leggi del capitalismo, che implicano un
modello di vita, ontologico sia a livello testuale, sia a livello
empirico, cui i personaggi di Infinite Jest e le persone che appartengono al mondo occidentale non possono sfuggire. Dunque, qual è l’etica del capitalismo che muove la trama narrativa e la biologia testuale dei personaggi del romanzo di Foster Wallace?
RPM: Forse è banale
dirlo, ma l’etica del tardo capitalismo, o dell’epoca iper-industriale
come l’ha definita Jonathan Crary, è l’etica della disumanizzazione
dolce. Dolce come un film che provoca un tale piacere da annullare ogni
bisogno fisiologico (ovvero tanto da trasformare l’uomo in cosa) e
quindi provocare la morte. Dolce perché ci diverte, ovvero ci allontana,
senza un’esplicita azione violenta, da tutto ciò che, per secoli, ha
definito l’umano: il legame tra conoscenza e bellezza, la
ricerca/creazione di un ‘luogo felice’, la dignità del sapere storico.
In Infinite Jest, il sapere umanistico diventa nevrosi e
ossessione – Hal impara a memoria tutto il OED e corregge
compulsivamente la grammatica di famigliari e amici – e si rovescia
infine nella barbarie, anzi nell’inumano dei gorgoglii seguenti
al collasso mentale di Hal nell’anno di Glad; la costruzione del luogo
felice neocapitalista rivela il suo ineliminabile rovescio: la no man’s land-discarica
che copre nordest degli USA e Quebec; e ancora, la sponsorizzazione
degli anni oblitera anche la parvenza di un continuum storico. Tutto il
reale è stato colonizzato dalla logica disumanizzante del
tardo-capitalismo. È lo sviluppo ultimo (almeno dal punto di vista
storico) della logica strumentale di cui, prima di Horkheimer e Adorno,
ha scritto Musil in alcuni saggi dal 1915 in avanti. Musil conia anche
il termine “razioide” per indicare una sorta razionalità autistica,
chiusa in sé, che elude un rapporto vivo e vitale con le emozioni e che
quindi elude immancabilmente la sfera del senso.
Mi rendo conto solo ora, e non so se
qualcuno lo abbia già notato, che il nome Hal rimanda immediatamente al
computer del romanzo 2001 Odissea nello spazio di Arthur C.
Clarke. Hal Incandenza è, per le sue capacità mnemoniche, per la sua
erudizione, una sorta di computer perfetto, o per lo meno La Mami cerca
di ‘programmarlo’ perché lo sia. Ma, esattamente come il suo omonimo
tecnologico, ha un “difetto” che, col passare del tempo, ne mina alla
radice il comportamento.
Mai come nella nostra epoca i diritti
dell’umanità sono stati affermati a parole – diritti dei lavoratori, dei
bambini, dei popoli – e negati nei fatti. A patto di depurarlo della
sua componente mitico-ideologica e dell’idealizzazione del proletariato,
Pasolini ci è ancora utilissimo. Aveva ragione quando parlava di un
nuovo fascismo omologante della società dei consumi che provoca
“frustrazione” e “ansia nevrotica” come “stati d’animo collettivi”. E
frustrazione e ansia nevrotica sono tratti fondamentali di praticamente tutti i personaggi di Infinite Jest.
Infinite Jest può essere letto
anche come studio sulla dipendenza: dall’alcool, dalla marijuana, etc.,
ma la vera dipendenza è quella dalle leggi non scritte del capitalismo
neoliberale. Che siano quelle della produzione iper-industriale o quelle
della moda giovanile che impone l’anedonia come unico atteggiamento
socialmente accettabile (la logica è la stessa, sono due facce della
stessa medaglia), queste leggi lasciano il soggetto svuotato, solo,
frustrato e ansioso. Dato che queste leggi sono state internalizzate,
lottare contro di esse significa immediatamente lottare contro una parte
di sé. Il conflitto è quindi immediatamente autodistruttivo.
Il problema del postumano oggi così
spesso al centro degli studi accademici rimanda per me non (solo) ad
universo fantascientifico e tecnologizzato, ma in primo luogo ad un
universo economico e sociale che non è di là da venire. È già qui, e
Wallace meglio di altri ce lo ha mostrato.
Eppure non voglio fare la parte del
millenarista. Ci sono sacche di resistenza, e il cammino non è
predeterminato. Vorrei chiudere, allora, con un passo, ancora di Musil,
tratto da L’uomo tedesco come sintomo (1923). Se qui Musil
parla già di un capitalismo come “immane organizzazione dell’egoismo al
ribasso” che distrugge il legame tra uomo e uomo, e se afferma una
dipendenza “straordinariamente grande” dell’uomo dagli influssi
ambientali, lascia – grazie ad una teoria molto complessa de concetto di
causa e al rifiuto di un determinismo rigido – anche un margine di
libertà. Il passo è lungo, ma credo valga la pena leggerlo per intero:
la via della storia
non è esattamente quella di una palla di biliardo che respinta segue un
percorso determinabile, ma assomiglia alla via delle nuvole che pure
segue le leggi della fisica, tuttavia attraverso di esse viene
influenzata da qualcosa che si può ben chiamare solo coincidenza di
circostanze; ovunque il vento soffia da Est verso Ovest, perché a Est si
trova un massimo di pressione e a Ovest un minimo, ma che un posto si
trovi a metà strada tra i due, che nessun massiccio montuoso nelle
vicinanze devii la direzione o si facciano sentire influssi concorrenti,
tutte queste circostanze, che formano il tempo meteorologico, anche
quando siano calcolabili, sono nel loro coincidere propriamente dei
fatti e non delle leggi. Allo stesso modo, quando un uomo si aggira per
certe strade e viene attirato qui da un’ombra, lì da un gruppo, più
avanti da un’insolita apertura di una facciata, se un altro uomo
incrocia ‘casualmente’ la sua strada e gli comunica qualcosa che gli fa
decidere di prendere una determinata strada e alla fine si trova in un
punto che né conosce né voleva raggiungere, ogni passo di questo cammino
avviene necessariamente, ma la successione di queste singole necessità è
senza reciproca connessione. Che all’improvviso io sia dove sono è un
fatto, un evento; se lo si dice necessario, perché ultimamente tutto ha
le proprie cause, ciò ha il carattere di pegno in nome del principio di
causalità, ma è a tutti gli effetti inutile perché non lo riscatteremo
mai.
(R. Musil, L’uomo tedesco come sintomo, Polimnia Digital Editions, 2014. Traduzione di Antonello Sciacchitano).
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