sabato 11 giugno 2016

INFINITE JEST VENT'ANNI DOPO

 Dialogo con Raffaello Palumbo Mosca a cura di Alberto Comparini

[Raffaello Palumbo Mosca ha studiato alla University of Chicago; ha scritto, fra le altre cose,  L’invenzione del vero. Romanzi ibridi e discorso etico nell’Italia contemporanea (Gaffi 2014). Alberto Comparini è dottorando a Stanford].


  David F. WALLACE

«I am seated in an office, surrounded by heads and bodies. My posture is consciously congruent to the shape of my hard chair. This is a cold room in University Administration, wood-walled, Remington-hung, double windowed against the November heat, insulted from Administrative sounds by the reception area outside, at which Uncle Charles, Mr. deLint and I were lately received.
I am in here» (p. 3)

AC: We are still here, aggiungo io – siamo qui, noi lettori, a rileggere e interrogarci su Infinite Jest a vent’anni dalla sua pubblicazione. Fin dalla prima pagina, Wallace crea uno spazio narrativo in cui lettore e autore sono chiamati ad interagire: «I am seated in an office», «I am in here»: e noi dove siamo?

RPM: Ricordo perfettamente la prima volta che lessi quelle parole, alla Feltrinelli di Genova, un tardo pomeriggio del 2000. Non conoscevo Wallace, e avevo aperto il libro per caso. Rimasi folgorato, e quella sera me ne andai a casa con Infinite Jest e con Brevi interviste con uomini schifosi, che era tutto ciò che avessero in negozio in quel momento. Ma torno subito alla tua citazione. Hai ragione a dire che Wallace richiede immediatamente la collaborazione del lettore: la descrizione che Hal fa di sé stesso, degli oggetti e dell’ambiente che lo circondano, del vestiario dei tre Decani, è insieme precisa e misteriosa. Misteriosa perché ancora non conosciamo nulla di Hal e della sua storia, solo percepiamo confusamente che siamo in un mondo non perfettamente in quadro. Ma è anche assolutamente nitida, come la lenta carrellata di una cinepresa che bandisce ogni soggettività. Ma – qui sta il punto – è una descrizione troppo precisa, talmente nitida da apparire disumanizzata. È per questo che comunica immediatamente un senso di straniamento. Questo, naturalmente, anticipa ciò che poi conosceremo come uno dei tratti fondamentali di Hal, vale a dire la sua particolare forma di alienazione. Quel giorno alla Feltrinelli, alla prima lettura, mi parve di essere stato trasportato dentro una stanza ovattata – quella stanza è ovviamente la mente di Hal – o sulla luna. O di essere precipitato negli spazi siderali. Ecco, se mi permetti un’ultima notazione un po’ impressionistica, Infinite Jest è un buco nero nel quale si precipita; uno spazio a lato del mondo reale che richiede un’immediata operazione di mappatura da parte del lettore. Dico uno spazio a lato, o comunque vicino al mondo reale perché il mondo che ci viene presentato è immediatamente riconoscibile: la scrivania, i doppi vetri, la reception, sono tutti elementi consueti e realistici (anche se descritti in modo iperrealistico). Eppure è anche evidente che c’è una sfasatura tra le leggi che governano il mondo ‘reale’ e quelle che invece regolano il mondo di Hal. Quasi impercettibilmente il lettore è entrato in quel mondo e ne deve accettare le regole. Accade lo stesso con Kafka. E proprio Kafka, secondo me, è un punto di riferimento importante per Wallace (e per comprenderne la scrittura).

Noi dove siamo? Noi siamo qui a rileggere Wallace ancora una volta. È quello che succede con i grandi autori. L’importante è, secondo me, provare a rileggerlo criticamente, senza le mitizzazioni che – lo dico senza alcun intento polemico – hanno talvolta caratterizzato la sua ricezione italiana. Wallace, insieme a pochi altri (Bolaño, ad esempio), è stato immediatamente canonizzato; è necessario che l’entusiasmo iniziale – giustificatissimo per altro – non escluda l’occhio critico.

AC: Vorrei rimanere ancora un attimo su questa pagina di Wallace, ché, oltre a chiamarci e parlarci direttamente, Hal imposta la narrazione su di un piano fortemente iper-realistico, come giustamente hai notato. Eppure, non trovo solamente figurativo l’uso che hai fatto della suggestione impressionistica, anzi; certo, non ci troviamo di fronte a un impressionismo visivo, bensì psicologico: che rapporto c’è, dunque, tra questa esigenza del dettaglio e la sfasatura che sussiste tra il piano della coscienza e quello della realtà?

RPM.: Le due cose, in questo brano, esistono l’una per l’altra; non c’è – non ha senso – la descrizione iperrealistica senza l’impressionismo psicologico, e viceversa. Noi cadiamo nel buco che la mente di Hal è, esattamente perché lui è in grado di descrivere sé stesso e gli altri in maniera così dettagliata. Sono gli aggettivi a farci immedesimare in Hal, a farci immediatamente percepire quello che lui percepisce (the hard chair, the cold room, e così via). Senza una aggettivazione così marcata la descrizione della stanza sarebbe stata semplicemente realistica, quasi ottocentesca. Wallace informa il lettore sulla forma degli oggetti, sul materiale del quale sono composti, sulla loro provenienza (comunissimo sarà per tutto il romanzo indicare la marca degli oggetti): potrebbe essere Balzac – penso ad esempio ai vestiti di Lucien nelle Illusioni perdute, alla stanza nella quale vive con la sua amante Coralie – ma ovviamente la descrizione di Wallace è iper-realistica e soggettiva. Non è la descrizione di un ambiente ma l’esperienza di una percezione. Se il realismo tende alla oggettività, l’iper-realismo tende alla distorsione, alla soggettività portata all’estremo. È per questo che Hal non parla di persone ma di “teste e corpi”.

Ancora: Hal vede sé stesso dal di fuori, come fanno gli schizofrenici: “my posture is consciously congruent to the shape of my hard chair”. Noi guardiamo Hal allo stesso momento dal di dentro e da fuori. Ovvero: noi siamo diventati Hal che guarda sé stesso. Il senso di straniamento è aumentato dai suoni, appena percettibili, che Hal sente o immagina di sentire dalla reception. (Per questo, probabilmente, ho evocato una stanza ovattata).

AC: Mi viene in mente il saggio di DFW, ‘E Unibus Pluram’: Television and U.S. Fiction, pubblicato nel 1993 su «The Review of Contemporary Fiction», che precede di tre anni Infinite Jest, ma di cui è evidentemente una forma in nuce. Inevitabile, dunque, associare l’iperrealismo di Foster Wallace al potere evocativo e immaginativo della televisione, dalla quale escono “teste e corpi” ipersoggettivi. Qual è la postura di Hal nei confronti di questi figuranti e come evolve, fin dalla prima pagina, la narrazione (descrittiva e diegetica) del romanzo in rapporto alla produzione infinita di storie della televisione?

RPM: È una domanda molto bella; e molto complessa: per rispondere in modo esaustivo occorrerebbe lo spazio di un saggio. Cercherò però di rispondere almeno parzialmente. E Unibus Pluram è certo un saggio essenziale, e che deve essere letto insieme all’intervista che – nella stessa sede – in parte lo integra. Il cuore pulsante del saggio è, secondo me, nella critica dell’ironia come tecnica onnipervasiva di una certa letteratura (che per comodità, e con un’approssimazione, chiamiamo postmoderna) e soprattutto come atteggiamento esistenziale. L’ironia come processo distanziante alla fine si rivela essere un meccanismo di difesa dalla brutalità del reale, dalla fragilità che inerisce l’essere umano. L’iperrealismo del romanzo, allora, non è solo specchio dell’iperrealismo televisivo, ma anche e soprattutto una sua critica. Lo è nella misura in cui – parafraso qui Wallace stesso nell’intervista con Mc Caffery – non mira semplicemente ad intrattenere il suo pubblico rassicurandolo nelle sue (infantili) aspettative, ma ricerca un contatto con una realtà, spesso dolorosa, che è anche, per usare un termine di Adorno, apparition, ovvero urto, irruzione dell’impensato all’interno del conosciuto. Allo stesso modo l’ironia dispiegata a piene mani per tutto il testo, è in realtà una meta-ironia, ovvero un’ironia che colpisce l’atteggiamento ironico stesso per decostruirlo. Wallace vuole bucare lo schermo ironico. Come Hal, è convinto che «ciò che passa per una cinica ed elegante trascendenza del sentimento non è altro che una specie di paura di essere veramente umano», ed essere veramente umano «vuol dire essere inevitabilmente sentimentale e ingenuo e portato alle sdolcinatezze e generalmente patetico» (Wallace 2000, 924).

AC: ironia, oppure ‘eironèia’, come recita la sua etimologia greca, dunque finzione. Quando deve fingere Hal per diventare, o semplicemente essere, umano? E quali sono le conseguenze sul piano narrativo e su quello estetico in questa ricerca finzionale dell’identità e della realtà in Infinite Jest?

RPM: In Infinite Jest, l’ironia è esattamente finzione, è una finzione di sé o, più precisamente, una maschera che si indossa per essere cool. È uno dei passaggi più citati di Inifnite Jest: “Risulta piuttosto interessante notare che il mondo delle arti degli U.S.A. di fine millennio considera fighe e giuste l’anedonia e il vuoto interiore”. Questa arte, continua Wallace, è consumata e studiata dai giovani “per capire come essere fighi e giusti” e, in definitiva, per “Non Essere Soli”. L’ironia è dunque la maschera, riflette Hal, che indossiamo perché abbiamo paura di “essere veramente umani”, il che significa “essere inevitabilmente sentimentali e ingenui e portati alle sdolcinatezze e generalmente patetici”. Sembrerebbe tutto facile e lineare, sembrerebbe un semplice gioco di opposizione: ironia e vuoto interiore contrapposti ad un vero sé che si cela per essere accettati dal gruppo. Ancora Wallace: “Lasciamo perdere la pressione-dei-coetanei. Si tratta piuttosto di fame-dei-coetanei. No? Entriamo nella pubertà spirituale quando giungiamo alla conclusione che il grande orrore trascendentale è la solitudine, l’esclusione, l’ingabbiamento dell’anima. Una volta arrivati a questa età, daremo e accetteremo qualsiasi cosa, indosseremo qualsiasi maschera per essere a posto, per far parte di qualcosa, per non essere Soli, noi giovani. Le arti U.S.A. sono la nostra guida per essere ammessi nel gruppo. Un Manuale”. Ma questa opposizione tra la maschera ironica, il vuoto interiore, l’anedonia, e un vero sé, è troppo semplice. Perché poi, questo vero sé, almeno per come viene descritto Hal, è esso stesso un “vuoto”. Hal è, lo si ripete più volte nel corso del romanzo, “empty inside”. Eppure questo essere vuoti del ‘vero sé’ è già un sentimento. O una patologia, come mostra emblematicamente il personaggio di Kate Gombert poco più avanti; è “depressione clinica o depressione involutiva o disforia unipolare”. Abbiamo quindi un vuoto (vero e sofferente) che finge un altro vuoto (falso e cool). È necessario trovare una terza via tra l’abbandonarsi al vuoto vero e sofferente che ci esclude dal contatto con gli altri (e dal loro dolore), come accade, ad esempio, alla Persona Depressa del racconto omonimo, e l’assunzione della maschera-finzione del vuoto suggerita (se non imposta) dalla società dei consumi. La terza via non può che essere un’ulteriore maschera o finzione, che non ha però, a questo punto, carattere negativo, perché è una costruzione di sé nella relazione con l’altro. Questa è, mi sembra, la pars construens della critica di Wallace all’ironia, della sua riflessione sul rapporto tra identità e società.

AC: Il rapporto tra identità e società in Infinite Jest passa necessariamente attraverso la moltitudine di figure che popolano l’universo di Foster Wallace: che rapporto instaura Foster Wallace con i suoi personaggi, intesi questi come personae (maschere) e characters (dunque personaggi, dotati di ‘caratteri’)?

RPM: In un saggio apparso nel Sunday Book Review del New York Times (16 febbraio 2016) Tom Bissell ipotizza che Infinite Jest rimanga un libro cruciale anche a vent’anni dalla sua uscita perché è un romanzo nel quale i personaggi sono tutti – maggiori e minori – ugualmente ‘rotondi’ (round – è la celebre definizione di Forster in Aspects of the Novel). Anche i personaggi minori sono sfaccettati e complessi, e Wallace “si assume l’impegno quasi metafisico di vedere la realtà attraverso i loro occhi”. Sono d’accordo: nonostante il narratore di Infinite Jest sia onnisciente e quindi la focalizzazione, dal punto di vista della sua totalità, sia sempre zero, come ha notato Ercolino nel suo (davvero ottimo) Il romanzo massimalista, la focalizzazione cambia “di unità narrativa in unità narrativa, e talvolta anche all’interno di uno stesso frammento”. Questa notazione è importante perché ci aiuta a capire come Wallace riesca nello stesso tempo a creare un legame forte tra lettore e personaggio, a stimolare il processo empatico – un processo empatico che è prima di tutto tra l’autore e i suoi personaggi (da qui anche il frequente uso dell’indiretto libero), e che naturalmente si trasmette al lettore. Allo stesso tempo, tramite un narratore onnisciente, Wallace riesce a preservare l’architettura del romanzo, a creare un ordine dall’alto; per quanto disperso in mille rivoli e in mille micro-storie, per quanto enciclopedico e corale (sto qui facendo miei una serie di aspetti che Ercolino indica come costituitivi non solo di Infinite Jest ma del ‘romanzo massimalista’ in generale), la narrazione non si perde nei suoi frammenti, ma obbedisce ad un ordine superiore. È quella cattedrale di cui ha parlato Proust per la Recherche.

Questo dinamismo della focalizzazione è anche, mi pare, ciò che permette a Wallace di trattare i suoi personaggi insieme come esseri umani singolari e differenziati, dotati di sentimenti, reazioni e ‘caratteri’ propri, e nello stesso tempo preservare il nucleo teorico fondamentale del romanzo, ovvero proprio l’investigazione del rapporto tra individuo e società contemporanea. In questo senso ogni personaggio è insieme sé stesso ma anche una posizione paradigmatica all’interno del discorso autoriale che mette al centro il potere alienante della realtà sociale contemporanea. Prova ne sia che praticamente tutti i personaggi di Infinite Jest mostrano un qualche tipo di alienazione, ma la mostrano in modo personale.

AC: questa struttura narrativa, di cui narratore, lettore e personaggi si fanno carico, che immagine riflette della società contemporanea? Giustamente citi Ercolino, ma a me viene (anche) in mente Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo di Fredric Jameson (1991), la versione accademica di Infinite Jest.

RPM.: Premetto che secondo me un romanzo non deve solo, o semplicemente, riflettere la società; o la cosiddetta (e sempre sfuggente) “realtà”. Al di là di ogni dichiarazione più o meno esplicita, nemmeno la Comédie Humaine fa questo. È ovviamente l’aggettivo “umana” l’elemento sul quale porre l’accento: mi interessa la società francese di metà Ottocento, ma soprattutto mi interessa Lucien de Rubempré, mi interessa Jacques Collin, e così via. Questo per dire due cose: a contraggenio rispetto alle neoavanguardie novecentesche, credo che il genere-romanzo non possa fare a meno del personaggio. Il romanzo non è per me il genere della finzione, ma il genere del personaggio. (E per questo tendo ad allargarne i confini, includendo – un po’ come fa l’ultimo Cercas, quello de Il punto cieco – anche molti scritti di cosiddetta non-fiction). Come Ortega Y Gasset, anche io credo che il compito del romanziere sia innanzi tutto creare “fauna spirituale”.

Ma questo anche per dire che, a rigore, non esiste “la società” nemmeno in Infinite jest; esistono – vivono nella pagina – una serie di personaggi che reagiscono ad un esterno e ad un interno, che noi per convenzione chiamiamo società e situazione psicologica, o carattere. Io vedo una costellazione, con tutte le forze che la regolano. E questa costellazione è fatta, in Infinite jest, di personaggi-astri che da una parte si sentono atomizzati (l’anedonia, la solitudine, etc.), dall’altra a solitudine e anedonia non sono dati a-priori, ma reazioni ad un esterno col quale i personaggi sono profondamente connessi. A mano a mano che “dispongono storia intorno a sé” (per usare l’espressione di un memorabile saggio di Giorgio Ficara), i personaggi finiscono per formare l’immagine di una società. Ma c’è anche un’altra società, un esterno con tutte le sue leggi e convenzioni più o meno costrittive, che sembra essere dato, indipendente dalla volontà e dalle azioni dei singoli. Questo esterno è il risultato ingovernabile e caotico di tutte le azioni individuali, o delle azioni mirate di pochi potenti? Come in ogni distopia, anche in Infinite jest si respira un’aria da teoria del complotto probabilmente non lontana dal vero. Creare un personaggio è anche un misurare la distanza tra il piccolo mondo del singolo e le leggi che governano il vivere associato. È un metro dell’impotenza e della solitudine del singolo.

Per quanto riguarda, invece, il riferimento al saggio di Jameson: l’accostamento mi pare tutt’altro che azzardato. Entrambi – in modi differenti – sono geniali interpretazioni, o diagnosi, del rapporto io-mondo così come lo conosciamo oggi. In mancanza di riferimenti testuali precisi, che non so se ci siano e in ogni caso io non sono in grado di fornire, preferisco limitarmi a segnalare, con te, una certa ‘aria di famiglia’ fra i due testi.

AC: vorrei insistere, in chiusura, su questo accostamento tra Jameson e DFW, relativamente alle tue bellissime definizioni di ‘romanzo come genere del personaggio’ e alle ‘leggi che governano il vivere associato’. La chiave di volta, per quanto mi riguarda, sono le leggi del capitalismo, che implicano un modello di vita, ontologico sia a livello testuale, sia a livello empirico, cui i personaggi di Infinite Jest e le persone che appartengono al mondo occidentale non possono sfuggire. Dunque, qual è l’etica del capitalismo che muove la trama narrativa e la biologia testuale dei personaggi del romanzo di Foster Wallace?

RPM: Forse è banale dirlo, ma l’etica del tardo capitalismo, o dell’epoca iper-industriale come l’ha definita Jonathan Crary, è l’etica della disumanizzazione dolce. Dolce come un film che provoca un tale piacere da annullare ogni bisogno fisiologico (ovvero tanto da trasformare l’uomo in cosa) e quindi provocare la morte. Dolce perché ci diverte, ovvero ci allontana, senza un’esplicita azione violenta, da tutto ciò che, per secoli, ha definito l’umano: il legame tra conoscenza e bellezza, la ricerca/creazione di un ‘luogo felice’, la dignità del sapere storico. In Infinite Jest, il sapere umanistico diventa nevrosi e ossessione – Hal impara a memoria tutto il OED e corregge compulsivamente la grammatica di famigliari e amici – e si rovescia infine nella barbarie, anzi nell’inumano dei gorgoglii seguenti al collasso mentale di Hal nell’anno di Glad; la costruzione del luogo felice neocapitalista rivela il suo ineliminabile rovescio: la no man’s land-discarica che copre nordest degli USA e Quebec; e ancora, la sponsorizzazione degli anni oblitera anche la parvenza di un continuum storico. Tutto il reale è stato colonizzato dalla logica disumanizzante del tardo-capitalismo. È lo sviluppo ultimo (almeno dal punto di vista storico) della logica strumentale di cui, prima di Horkheimer e Adorno, ha scritto Musil in alcuni saggi dal 1915 in avanti. Musil conia anche il termine “razioide” per indicare una sorta razionalità autistica, chiusa in sé, che elude un rapporto vivo e vitale con le emozioni e che quindi elude immancabilmente la sfera del senso.

Mi rendo conto solo ora, e non so se qualcuno lo abbia già notato, che il nome Hal rimanda immediatamente al computer del romanzo 2001 Odissea nello spazio di Arthur C. Clarke. Hal Incandenza è, per le sue capacità mnemoniche, per la sua erudizione, una sorta di computer perfetto, o per lo meno La Mami cerca di ‘programmarlo’ perché lo sia. Ma, esattamente come il suo omonimo tecnologico, ha un “difetto” che, col passare del tempo, ne mina alla radice il comportamento.

Mai come nella nostra epoca i diritti dell’umanità sono stati affermati a parole – diritti dei lavoratori, dei bambini, dei popoli – e negati nei fatti. A patto di depurarlo della sua componente mitico-ideologica e dell’idealizzazione del proletariato, Pasolini ci è ancora utilissimo. Aveva ragione quando parlava di un nuovo fascismo omologante della società dei consumi che provoca “frustrazione” e “ansia nevrotica” come “stati d’animo collettivi”. E frustrazione e ansia nevrotica sono tratti fondamentali di praticamente tutti i personaggi di Infinite Jest.

Infinite Jest può essere letto anche come studio sulla dipendenza: dall’alcool, dalla marijuana, etc., ma la vera dipendenza è quella dalle leggi non scritte del capitalismo neoliberale. Che siano quelle della produzione iper-industriale o quelle della moda giovanile che impone l’anedonia come unico atteggiamento socialmente accettabile (la logica è la stessa, sono due facce della stessa medaglia), queste leggi lasciano il soggetto svuotato, solo, frustrato e ansioso. Dato che queste leggi sono state internalizzate, lottare contro di esse significa immediatamente lottare contro una parte di sé. Il conflitto è quindi immediatamente autodistruttivo.

Il problema del postumano oggi così spesso al centro degli studi accademici rimanda per me non (solo) ad universo fantascientifico e tecnologizzato, ma in primo luogo ad un universo economico e sociale che non è di là da venire. È già qui, e Wallace meglio di altri ce lo ha mostrato.

Eppure non voglio fare la parte del millenarista. Ci sono sacche di resistenza, e il cammino non è predeterminato. Vorrei chiudere, allora, con un passo, ancora di Musil, tratto da L’uomo tedesco come sintomo (1923). Se qui Musil parla già di un capitalismo come “immane organizzazione dell’egoismo al ribasso” che distrugge il legame tra uomo e uomo, e se afferma una dipendenza “straordinariamente grande” dell’uomo dagli influssi ambientali, lascia – grazie ad una teoria molto complessa de concetto di causa e al rifiuto di un determinismo rigido – anche un margine di libertà. Il passo è lungo, ma credo valga la pena leggerlo per intero:

la via della storia non è esattamente quella di una palla di biliardo che respinta segue un percorso determinabile, ma assomiglia alla via delle nuvole che pure segue le leggi della fisica, tuttavia attraverso di esse viene influenzata da qualcosa che si può ben chiamare solo coincidenza di circostanze; ovunque il vento soffia da Est verso Ovest, perché a Est si trova un massimo di pressione e a Ovest un minimo, ma che un posto si trovi a metà strada tra i due, che nessun massiccio montuoso nelle vicinanze devii la direzione o si facciano sentire influssi concorrenti, tutte queste circostanze, che formano il tempo meteorologico, anche quando siano calcolabili, sono nel loro coincidere propriamente dei fatti e non delle leggi. Allo stesso modo, quando un uomo si aggira per certe strade e viene attirato qui da un’ombra, lì da un gruppo, più avanti da un’insolita apertura di una facciata, se un altro uomo incrocia ‘casualmente’ la sua strada e gli comunica qualcosa che gli fa decidere di prendere una determinata strada e alla fine si trova in un punto che né conosce né voleva raggiungere, ogni passo di questo cammino avviene necessariamente, ma la successione di queste singole necessità è senza reciproca connessione. Che all’improvviso io sia dove sono è un fatto, un evento; se lo si dice necessario, perché ultimamente tutto ha le proprie cause, ciò ha il carattere di pegno in nome del principio di causalità, ma è a tutti gli effetti inutile perché non lo riscatteremo mai.
(R. Musil, L’uomo tedesco come sintomo, Polimnia Digital Editions, 2014. Traduzione di Antonello Sciacchitano).

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