venerdì 10 giugno 2016

Recensione di Antonio ELIA

The man in the hig castle

di A. ELIA
 
The man in the high castle è un romanzo di Philip K. DICK del 1962, pubblicato in Italia nel 1965 dalla casa editrice La Tribuna con il titolo La svastica sul sole.
La prima notazione – impossibile non farla – riguarda il titolo. Perché quel titolo che non richiama per niente l’originale? Cosa si voleva richiamare nel lettore italiano? 
Il titolo originale fissa il punto focale, la chiave di volta del romanzo, rivela l’inversione tra realtà (romanzata) e finzione (smascherata) che la scrittura rende possibile, come in un gioco di prestigio, senza bisogno di giustificarsi o addurre prove.
Perché l’uomo del castello, che poi non si era mai barricato in un castello per sfuggire alla caccia dei nazisti, conosceva la verità e l’aveva rivelata in un romanzo (un romanzo nel romanzo).
P. Dick narra di un’America sconfitta nella seconda guerra mondiale, spartita tra Germania nazista e Giappone imperiale; di un mondo assoggettato al dominio totalitario dei nazisti che hanno attuato l’originario programma di sterminio delle razze considerate inferiori (ebrei, slavi, neri) e hanno realizzato progetti ambiziosi e folli (prosciugamento del mar Mediterraneo, conquista di Marte ecc.). Di un mondo che però non si rassegna.
Pur costretti a vivere nel terrore che la follia nazista arrivi a celebrare il suo delirio di onnipotenza scatenando una guerra nucleare contro il Giappone; prostrati da una condizione materiale precaria e da una condizione morale senza orizzonti; gli uomini non si rassegnano all’abbrutimento.
Tutti i personaggi del romanzo, in realtà, sono partigiani della rinascita.
Lo sono Robert Childan e Frank Frink (con Ed McCarthy) che credono nella possibilità di commerciare e produrre oggetti d’arte contemporanea, rompendo un circuito, mentale innanzitutto, che li lega al gusto degli occupanti giapponesi per l’arte americana d’anteguerra.
Lo è il signor Nabosuke Tagomi, importante funzionario nipponico, che si ribella alle pretese tedesche e “salva” un ebreo americano (Frank Frink, protetto, come tutti gli ebrei ancora in vita, da un’identità falsificata) rifiutandosi di consegnarlo alle S.S. e alla certa deportazione ed eliminazione.
Anche il tedesco Baynes, che complotta contro il regime e avverte i Giapponesi del progetto nazista di un attacco nucleare imminente e definitivo contro di loro, opera per la costruzione di un mondo liberato dalla follia nazista.
Infine, lo è a maggior ragione la signora Juliana Frink, moglie di Frank Frink, che ha letto il libro di un autore americano, Hawthorne Abendsen, La cavalletta non si alzerà più, e vuole sapere dall’autore se il contenuto del suo racconto è vero o solo utopia.
Cosa diceva di così sconvolgente il romanzo di Abendsen? Semplicemente il contrario della realtà: che la Germania aveva perso la guerra. E quella è la verità in cui crede Juliana che, al termine del romanzo, esce dalla casa (che non è un castello) di Abendsen e se ne va nel mondo con la certezza che ciò che si vuole veramente può essere realizzato.
La storia si sviluppa in brevi episodi che illustrano la vita e le azioni dei personaggi nel divenire di un cambiamento psicologico che li rende più consapevoli. Il punto di partenza è uno stato di rassegnazione comune a tutti, all’élite nipponica che governa gli Stati americani della costa occidentale e agli Americani sfiduciati che ne accettano supinamente la filosofia e le convinzioni. Il passaggio successivo trova e gli uni e gli altri in una condizione di disagio e li muove alla ricerca di qualcosa che possa ridare senso alla propria esistenza. La ricerca però è faticosa, destabilizzante, implica l’introspezione e la sconfitta del sé rassegnato; passa attraverso prove del fuoco che possono bloccare tragicamente o spianare la strada che porta alla meta.
Philip K. Dick in questo romanzo interessante e vivo, ucronico, immagina come sarebbe stato il mondo se i nazisti avessero vinto la guerra. Ma soprattutto ci dice che è possibile vincere il fatalismo e la rassegnazione. È l’incoraggiamento che lancia ai suoi contemporanei, in una fase storica in cui l’America si sente schiacciata dalla paura della bomba atomica e dai pericoli della guerra fredda arrivata agli inizi degli anni ’60, con la crisi della Baia dei Porci, alle porte di casa. Erano anche gli anni della nuova frontiera kennediana, si apriva un’epoca nuova che andava sostenuta e incoraggiata e P. Dick presta alla causa gli strumenti del suo mestiere. Ci racconta una storia di fantascienza, ma per la prima volta è una storia che sta ben radicata nel mondo reale ed è all’uomo del suo tempo che parla, e non solo. Parla anche alle donne e agli uomini di oggi, depressi da una crisi che dopo quasi dieci anni non ha ancora esaurito i suoi effetti, ci avvilisce con il suo carico di irrazionalità che allarga la forbice delle differenze sociali e umilia miliardi di persone nei giochi di un potere economico distruttivo e cieco.

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