The man in the hig castle
The man in the high castle è un romanzo di Philip K. DICK
del 1962, pubblicato in Italia nel 1965 dalla casa editrice La Tribuna con il
titolo La svastica sul sole.
La
prima notazione – impossibile non farla
– riguarda il titolo. Perché quel titolo che non richiama per niente
l’originale? Cosa si voleva richiamare nel lettore italiano?
Il
titolo originale fissa il punto focale, la chiave di volta del romanzo, rivela
l’inversione tra realtà (romanzata) e finzione (smascherata) che la scrittura
rende possibile, come in un gioco di prestigio, senza bisogno di giustificarsi
o addurre prove.
Perché
l’uomo del castello, che poi non si era mai barricato in un castello per
sfuggire alla caccia dei nazisti, conosceva la verità e l’aveva rivelata in un
romanzo (un romanzo nel romanzo).
P.
Dick narra di un’America sconfitta nella seconda guerra mondiale, spartita tra
Germania nazista e Giappone imperiale; di un mondo assoggettato al dominio
totalitario dei nazisti che hanno attuato l’originario programma di sterminio
delle razze considerate inferiori (ebrei, slavi, neri) e hanno realizzato progetti
ambiziosi e folli (prosciugamento del mar Mediterraneo, conquista di Marte
ecc.). Di un mondo che però non si rassegna.
Pur
costretti a vivere nel terrore che la follia nazista arrivi a celebrare il suo
delirio di onnipotenza scatenando una guerra nucleare contro il Giappone;
prostrati da una condizione materiale precaria e da una condizione morale senza
orizzonti; gli uomini non si rassegnano all’abbrutimento.
Tutti
i personaggi del romanzo, in realtà, sono partigiani della rinascita.
Lo
sono Robert Childan e Frank Frink (con Ed McCarthy)
che credono nella possibilità di commerciare e produrre oggetti d’arte contemporanea,
rompendo un circuito, mentale innanzitutto, che li lega al gusto degli
occupanti giapponesi per l’arte americana d’anteguerra.
Lo è il signor Nabosuke Tagomi,
importante funzionario nipponico, che si ribella alle pretese tedesche e “salva” un ebreo americano (Frank Frink,
protetto, come tutti gli ebrei ancora in vita, da un’identità falsificata)
rifiutandosi di consegnarlo alle S.S. e alla certa deportazione ed
eliminazione.
Anche il tedesco Baynes, che
complotta contro il regime e avverte i Giapponesi del progetto nazista di un
attacco nucleare imminente e definitivo contro di loro, opera per la
costruzione di un mondo liberato dalla follia nazista.
Infine,
lo è a maggior ragione la signora Juliana Frink, moglie di Frank Frink, che ha
letto il libro di un autore americano, Hawthorne Abendsen, La cavalletta non si
alzerà più, e vuole sapere dall’autore se il contenuto del suo racconto è
vero o solo utopia.
Cosa diceva di così
sconvolgente il romanzo di Abendsen? Semplicemente il contrario della realtà:
che la Germania aveva perso la guerra. E quella è la verità in cui crede
Juliana che, al termine del romanzo, esce dalla casa (che non è un castello) di
Abendsen e se ne va nel mondo con la certezza che ciò che si vuole veramente
può essere realizzato.
La storia si sviluppa in
brevi episodi che illustrano la vita e le azioni dei personaggi nel divenire di
un cambiamento psicologico che li rende più consapevoli. Il punto di partenza è
uno stato di rassegnazione comune a tutti, all’élite nipponica che governa gli
Stati americani della costa occidentale e agli Americani sfiduciati che ne
accettano supinamente la filosofia e le convinzioni. Il passaggio successivo trova
e gli uni e gli altri in una condizione di disagio e li muove alla ricerca di
qualcosa che possa ridare senso alla propria esistenza. La ricerca però è
faticosa, destabilizzante, implica l’introspezione e la sconfitta del sé
rassegnato; passa attraverso prove del fuoco che possono bloccare tragicamente
o spianare la strada che porta alla meta.
Philip K. Dick in questo romanzo
interessante e vivo, ucronico, immagina come sarebbe stato il mondo se i
nazisti avessero vinto la guerra. Ma soprattutto ci dice che è possibile
vincere il fatalismo e la rassegnazione. È l’incoraggiamento che lancia ai suoi
contemporanei, in una fase storica in cui l’America si sente schiacciata dalla
paura della bomba atomica e dai pericoli della guerra fredda arrivata agli
inizi degli anni ’60, con la crisi della Baia dei Porci, alle porte di casa.
Erano anche gli anni della nuova frontiera kennediana, si apriva un’epoca nuova
che andava sostenuta e incoraggiata e P. Dick presta alla causa gli strumenti
del suo mestiere. Ci racconta una storia di fantascienza, ma per la prima volta
è una storia che sta ben radicata nel mondo reale ed è all’uomo del suo tempo
che parla, e non solo. Parla anche alle donne e agli uomini di oggi, depressi da
una crisi che dopo quasi dieci anni non ha ancora esaurito i suoi effetti, ci avvilisce
con il suo carico di irrazionalità che allarga la forbice delle differenze
sociali e umilia miliardi di persone nei giochi di un potere economico
distruttivo e cieco.
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