Recensione di Antonio ELIA
Ho letto “Alma”, il romanzo di Federica MANZON, per due motivi: perché vincitore del Premio Campiello 2024 e, forse, soprattutto perché è il nome che mia figlia e il suo compagno daranno alla loro attesa primogenita. E ho fatto bene perché affronta una vicenda interessante, delicata e tragica, ambientata in un tempo di speranze deluse e di conflitti dolorosi, in una terra di confine (Trieste, il Carso e di fronte l’ex Jugoslavia) che “rende impossibile il restare e lacerante il partire”.
Alma vive la sua infanzia nella Trieste degli anni Settanta tra il disinteresse della madre impegnata nell’esperienza basagliana dell’ospedale dei matti, “…la maggior parte del tempo … in preda alla confusione della sua vita… Una casa provvisoria dove le persone entravano e se ne andavano, e pareva che i vestiti non fossero mai stati tolti dalle valigie…”, e l’attesa di quel marito amatissimo e assente; i ritorni irregolari e le repentine partenze del padre che l’affascina e la irrita con “…la capacità di rendere magnifici gli istanti, prerogativa dei volubili e degli egoisti o di quelli sempre in partenza verso qualcosa di irresistibile che gli altri, i familiari perlopiù, non capivano…”, e l’avvince nella “complicità irresistibile di cui sono capaci i costruttori di storie, prima di sparire”.
In questo clima di inquieta precarietà, d’indigenza e incertezza, a darle un po’ di equilibrio, ci sono i nonni materni, nostalgici della Trieste asburgica, ordinata e colta,
“…la cioccolata a merenda e le conversazioni
garbate, i quadri a olio alle pareti e i cuscini con scene di caccia sul
divano… il loro modo di vivere elegante e mondano… Alma dai nonni si riposava,
c’era sempre un pigiama pulito per lei sotto il cuscino e frutta a colazione,
un tavolo sgombro dove fare i compiti e matite con la punta ben temperata.”
ma ormai superata e anch’essa incapace di offrire certezze e prospettive.
Quel tempo magico finisce di colpo, quando i suoi genitori decidono di abbandonare la casa nel viale dei platani messa generosamente a disposizione dai nonni e di salire nel Carso, in una casetta tutta loro, con i muri scrostati, il giardino e un dondolo arrugginito, tra genti di un’altra lingua.
Da quel momento, Alma avrà il permesso di vedere i nonni solo il giorno del suo compleanno.
Partenze e ritorni sono la “lacerante” ricorrenza che lega Alma a suo padre che quel confine attraversa in continuazione, attratto da due poli forse inconciliabili: il desiderio di una tranquilla vita affettiva al fianco della moglie e della figlia
“È l’inquietudine che lo ha sempre spinto a tornare, il suo bisogno di trovare un ancoraggio per non trasformarsi in un nomade privo di bussola: torna perché la vita di là ha un’intensità in cui non è sicuro di non perdersi, se vi rimanesse troppo a lungo. È per questo che ha sposato la figlia del famoso germanista. No, non per fare entrare l’ordine asburgico nella sua vita, perché sua moglie ne è più priva di lui, ma perché quei modi urbani e controllati fossero sempre disponibili all’orizzonte, un’eredità che è passata a sua figlia e verso la quale lui ha delle responsabilità”;
e l’ideale di una patria (lui slavo, forse tzigano) che nella Jugoslavia di Tito aveva vagheggiato il superamento delle ricorrenti tensioni etniche e religiose che in passato ne avevano lacerato il tessuto sociale e la convivenza.
Quali siano gli impegni che lo chiamano “di là”, oltre confine, Alma non lo saprà mai con certezza, ma sa della sua familiarità con Tito “occhi di vipera” che lei ha conosciuto durante le vacanze estive e in qualche 1° maggio della sua infanzia nell’isola di Brioni, il quartier generale del Maresciallo “che adorava i bambini, si faceva fotografare con loro ogni volta che appariva alle cerimonie pubbliche, li baciava e accettava i loro doni”.
Poi nella casa del Carso arriva Vili.
Alma ricorda quel giorno che le aveva cambiato la vita, il giorno in cui, lei aveva dieci anni, il padre aveva portato a casa un ragazzino della sua stessa età, di origini serbe, figlio di un suo caro amico, intellettuale caduto in disgrazia ed espulso dal partito.
Il rapporto con Vili, oscillante tra l’attrazione e la diffidenza, caratterizza gli anni dell’adolescenza, anni di formazione e di consapevolezza in cui matura il tempo della libertà, delle scoperte e delle scorribande che le fanno vivere la città reale con le sue contraddizioni e il retaggio di una storia tragica la cui impronta è ancora ben visibile.
La scopre durante le passeggiate sul Carso con il padre, lungo il confine abitato dagli “s’ciavi” e oltre il confine dove è ancora Yugoslavia e poi sarà Slovenia; nei depositi del porto vecchio dove erano ancora ammassati i beni degli sfollati istriani dopo la Seconda Guerra mondiale; nelle dure parole di Lucio, il ragazzo conosciuto ai “Topolini”, che non parla il dialetto triestino e odia gli Slavi perché la sua famiglia è di quelle sfollate dall’Istria; nelle scelte di Vili che non vuole perdere il contatto con la sua gente e la sua lingua e inizia a frequentare la Chiesa ortodossa di San Spiridione rinsaldando il legame di sangue che lo lega al Paese da cui è stato allontanato dai suoi genitori per garantirgli un’esistenza libera.
In questo tempo di scoperte e di formazione tra Alma e Vili nasce un incostante legame affettivo, oscillante tra l’attrazione e la diffidenza, consumato prevalentemente nel magazzino 18 del porto vecchio “…zeppo di bauli, valigie, macchine da cucire, ma soprattutto scatole di vestiti, libri e giocattoli, di fotografie. I tesori degli esuli scappati dalle truppe titine. Un deposito di mondi abbandonati in tutta fretta e mai ricostruiti altrove”, ignorato per il resto delle loro giornate. Un legame stretto, comunque, che tale rimarrà per il resto delle loro vite, anche nelle incomprensioni e nelle avversità dei rispettivi percorsi che li separeranno: lui fotografo, legato a quella professione dal regalo, una Zenit-automat, che il padre di Alma gli aveva portato per il compleanno come regalo dei suoi genitori;
“La macchina fotografica diventa per Vili un passe-partout, una chiave inglese che lo autorizza a prendere possesso della città dove è finito a vivere, a essere là dove girano gli ingranaggi del mondo”
lei giornalista nella sua città, successivamente nella capitale dove si trasferirà per sfuggire alle assenze che non l’aiutano a capire quanto succede oltre il confine dove imperversa la guerra civile dopo la morte del Maresciallo.
Dopo quell’infausto e temuto evento il padre ritorna nella casa del Carso per non andarsene più, perché “di là” era stata umiliata l’utopia di poter “creare mondi senza confini, dove le origini non contano e vivere insieme è alla portata di tutti”. Da allora non sarà più lo stesso uomo, allegro e imprevedibile, si chiuderà in se stesso, forse impegnato a riavvolgere il nastro della propria vita spesa senza successo nel fallito esperimento di una Federazione yugoslava pacificata, multietnica, anticolonialista e antimperialista.
Il suo ritorno coincide con la fuga di Vili dalla casa del Carso dopo un acceso diverbio tra il giovane e il vecchio reduce per dissensi sulle cause e le colpe della guerra e delle atrocità conseguenti. Diverbio concluso da due lapidarie e definitive frasi:
“Tu non sei nessuno,” dice il padre di Alma, colmo di indignazione e dolore. “Sei un ragazzino che non sa niente.”
“Hai ragione,” risponde Vili, stringendo le parole tra i denti per controllare la voce. “Io non so niente, non ho visto niente, non ero lì come te. Ma quello è il mio Paese.”
Non aggiunge altro e sale in camera sua. Il pomeriggio stesso se ne va.
Alma e Vili si ritrovano a Belgrado, ambedue testimoni di guerra. Dopo alcuni mesi di convivenza si lasciano, lacerati dalle incomprensioni sull’attività di fotoreporter svolta da lui al seguito delle bande cetniche. Tra loro è ancora quella frase: “Tu non sai niente”, pronunciata da Vili che non vuole chiarire la sua posizione, a causare la definitiva separazione e il ritorno di Alma a Trieste dove continuerà il suo penoso interrogarsi per cercare di capire. Non l’aiuteranno i silenzi di suo padre, il suo dolore inespresso, la sua indolenza; non l’aiuterà la città con i suoi luoghi e i ricordi, perché, nonostante tutto, Vili le manca.
Dopo la fuga da Belgrado, è ancora lei a partire per “la capitale della nazione”, allontanandosi definitivamente dalla città, dalla famiglia e dai ricordi. Che riuscirà con fatica a tenere a bada ma ritorneranno prepotenti quando l’orrore della guerra insanguinerà di nuovo l’Europa in questi anni Venti del nuovo millennio.
Alma rivede Vili trent’anni dopo, dopo la morte di suo padre, a causa della sua inattesa eredità (una cassetta piena di ricordi) che, per volontà testamentaria, le sarebbe stata consegnata da Vili.
S'incontrano a Trieste durante la settimana della Pasqua ortodossa, tre giorni in cui, nell’attesa di ritrovare Vili, Alma riavvolge il nastro della sua vita e la ricompone come fosse un puzzle per darle un senso e renderla comprensibile.
Alma si meraviglia di quell’eredità fatta di ricordi perché suo padre aveva sempre sostenuto che il passato non conta
"Il passato e la memoria sono sopravvalutati. In nome della memoria si cercano le grotte con le ossa, si disseppelliscono i morti invece di lasciarli in pace, si aprono conti che erano stati chiusi miracolosamente.”
"Perché il passato
è come una pietra che ti viene legata alla caviglia. Più pesante è la pietra o
più pietre hai attorno ai piedi, meno riesci a nuotare al largo. E le persone
che nuotano al largo fanno paura.”
Tutto dipende dalla geografia e non dalla storia, diceva, e neanche dalle relazioni, come aveva sostenuto Alma.
"Il passato e la memoria sono sopravvalutati. In nome della memoria si cercano le grotte con le ossa, si disseppelliscono i morti invece di lasciarli in pace, si aprono conti che erano stati chiusi miracolosamente."
"Se guardi indietro vedi solo odio, il resto è stato cancellato."
Quell’eredità sarà l’inizio di una nuova storia.
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