Recensione di Antonio ELIA
L’incipit del romanzo è inaspettato e spiazzante: “Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza”.
Non sono soltanto gli effluvi corporei a caratterizzarla, ma anche i profluvi di parole sminuenti e offensive che rivolge a tutti senza riguardo. Insomma, Angela è una donna insopportabile che sembra realizzarsi nella compulsiva violenza verbale e nella convinzione di essere portatrice di un’evidente superiorità morale e sociale. Eppure Angela non è una donna rozza e incolta, ha frequentato il liceo classico, ha studiato alla facoltà di lettere, ha fatto un buon matrimonio e vive un’agiata vita borghese; forse è la mitizzazione delle sue origini: “Io so’ sannita, so’ sgherra!” (dove sgherro è il soprannome della famiglia d’origine che richiama “l’idea delle guardie armate, milizie private, gente a cui non la si fa, prepotenti”), sottolineate “con una stolida fierezza che nemmeno il tempo è riuscito ad affievolire”. O forse no.
Chi sia davvero sua madre non lo sa neanche il figlio narratore convinto che incarni la “figura simbolo degli orrori dell’Italia” perché riassume in sé “il coacervo dei mali nazionali…: il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’egoismo, l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore dell’ignoranza, il rancore…”. Tutto questo è Angela e ne va fiera.
Il romanzo-memoir di Antonio Franchini tratteggia con garbo e uno sguardo divertito e ironico un panorama famigliare congestionato dall’esuberanza di questa donna eccessiva e agguerrita, incapace di limitarsi e di rapportarsi civilmente con il prossimo, a cominciare dalla famiglia (i tre figli e il marito). La narrazione segue il filo dei ricordi del figlio narratore e si sviluppa in una serie di quadri raggruppati per connessione senza un ordine preciso, l’unico collante essendo l’affinità delle reazioni della protagonista e/o la ripetitività delle sue esternazioni.
I toni sono quelli della commedia napoletana, un alternarsi di situazioni comiche e tragiche in cui l’indiscussa protagonista alterna sfoghi incontrollati a vere e proprie recite preparate con cura e di volta in volta aggiornate.
Al termine del romanzo, che coincide con la malattia e la morte della madre, il narratore non è ancora riuscito a comprendere le ragioni del comportamento materno. Il sentimento di avversione, se non di vero odio per ciò che essa era e per le nefaste conseguenze riversate sui familiari, si stempera in un ricordo tenero di una gita in montagna al termine della quale, “quando fummo giù entrambi, [Angela]disse: «Che bella giornata m’è fatto passà!». «Hai visto?». «Comme diceva ’a signora Verde? ’O guaglione mio…». «Eh…». «Io e te però nun parimmo mamma e figlio…». «No? E che parimmo?». «Nun ’o ssaccio… Nun simmo comme a tutte quante… Nuie nun facimmo vuommeche, ce mannamm’ affanculo! Che è? Un rapporto di amore-odio?». «Eh, chi lo sa… Però hai visto che hai anche preso la funivia senza fare storie? Non ci credevo che la prendevi…».
«Io cu te venesse dappertutto. Tu fusse capace ’e me fà piglià pure l’aereo».
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