LE STORIE DI NONNO PASQUALINO (Seconda puntata)
Antonio ELIA
Il pescatore che rema verso casa all’imbrunire
Non considera la quiete in cui si muove,
Così io, poiché il sentimento fa annegare, più non dovrei chiedere
Il crepuscolo sicuro che le tue mani calme davano.
(Derek Walcott, da "Il porto")
Nonno Pasqualino
L’uomo visto da Monica lo chiamano tutti Nonno Pasqualino perché è il pescatore più vecchio del circondario. Egli, a quasi ottant’anni, anziché godersi il meritato riposo dopo una lunga vita di lavoro, preferisce ancora la fatica della pesca, ripagata dal piacere del silenzio e dalla maestosità dell’immensa distesa di azzurro.
Nonno Pasqualino guidato dalla sua grande esperienza e dai cicli delle stagioni che fanno avvicinare alla riva varietà di pesce diverse di stagione in stagione si dedica a ogni tipo di pesca. Quella che ama di più è la traina che gli consente di solcare il mare in lungo e in largo, lentamente, vogando con regolarità.
Quando soffia lo
scirocco o nelle fresche giornate d’inverno si dedica alla pesca con la canna,
seduto pazientemente per ore e ore su uno scoglio nell’attesa che abbocchi
un’occhiata, un sarago o un’orata.
Quand’era più giovane e poteva contare sull’aiuto di suo fratello Daniele praticava anche la pesca d’altura, la pesca notturna con la lampara, e in qualche caso le battute di pesca lo tenevano lontano da casa per più giorni. In quelle occasioni provava un piacere speciale quando, issata la vela, la barca scivolava silenziosa sulle onde e si lasciava trasportare docile dal soffio gentile del vento.
Attualmente, a causa dell’età e, soprattutto per non fare stare in ansia sua moglie, non si allontana dalla costa e il suo raggio d’azione spazia in quel tratto di mare antistante il paese che va da Porto Miggiano a Malepasso.
Nei giorni in cui le condizioni meteorologiche sconsigliano di avventurarsi in mare, Nonno Pasqualino svolge numerose altre attività: cura l’uliveto e l’orto da cui ottiene tutte le verdure che, fresche o conservate dalle sapienti mani di Nonna Vata, allietano la sua tavola; prepara la legna che d’inverno scoppietta allegra nel caminetto della cucina; si dedica alla raccolta dei frutti spontanei (cicureddhre[1], lampagioni, asparagi selvatici, funghi, lumache) di cui la terra è generosa; attende a tutte le piccole riparazioni di cui l’abitazione necessita.
Nei momenti di riposo lo puoi trovare sotto il “portico dei Gabrieli” o negli altri luoghi in cui gli anziani del paese si danno appuntamento per farsi compagnia e commentare le vicende della loro esistenza. Il loro è un vociare grave e gioioso allo stesso tempo, un flusso ininterrotto di aneddoti che si sovrappongono, s’incontrano, si allontanano, accompagnati da pillole di saggezza, da riflessioni amare sui tempi, dal confronto con il tempo della loro giovinezza, dalle canzonature tra il serio e il faceto che si rivolgono l’un l’altro.
La sera poi, e
specialmente le sere d’inverno, è il momento del nonno narratore. Nonno
Pasqualino dopo cena si esibisce, per la gioia dei suoi nipotini, nella
narrazione di aneddoti, racconti fantastici, storie di “scazzamurreddhri”[2]
e di “macare”[3], che
lasciano i bambini incantati e a volte impauriti. In questo ruolo è
impareggiabile e ogni sera i nipotini, ma nelle sere d’estate anche i bambini
del vicinato, lo circondano seduti sui loro sgabellini[4]
di legno, attenti a non perdere una parola delle storie che egli racconta con
perizia, in un crescendo di interesse e di coinvolgimento.
Nasce un’amicizia
Quando al mattino successivo Nonno Pasqualino si avvicinò all’insenatura della “Nzurfarata” per ritirare le reti, il suo sguardo istintivamente fu attratto dallo scoglio sul quale il giorno prima aveva notato quello strano movimento. Questa volta la vide e si accorse, senza ombra di dubbio, che era una foca. La cosa un po’ lo preoccupò. Egli sapeva due cose sulle foche e ambedue lo contrariavano.
Per esperienza diretta temeva le loro incursioni a caccia dei pesci impigliati nelle reti e i buchi che la loro azione causava.
Ben più preoccupante era la seconda!
Tra i pescatori della zona si raccontava che lo sguardo delle foche aveva un potere malefico: chi lo incrociava, anche solo per pochi secondi, rischiava di uscire di senno, restava attratto dalla sua forza ipnotica che lo spingeva a seguire l’animale fin nelle profondità del mare. Si raccontava anche di un pescatore che era sparito senza lasciare traccia alcuna, mentre la sua barca era stata ritrovata alla deriva proprio nei pressi di un’altra grotta abitata da una famiglia di foche. Il fatto era accaduto quasi un secolo prima, ma suscitava ancora una forte impressione tra i pescatori che lo ricordavano come se fosse accaduto da poco e ripetevano persino il nome del povero malcapitato.
Nonno Pasqualino ebbe paura, rallentò ed evitò di guardare dalla parte della foca. Di tanto in tanto, mentre tirava la rete, avvicinandosi verso l’estremità dell’insenatura, controllava che fosse ancora al suo posto, ma stava attento a non incrociarne lo guardo.
Se l’uomo aveva paura, Monica non era da meno. Restò ferma al suo posto, come il giorno precedente, pronta a tuffarsi in acqua e a scappare al minimo accenno di pericolo. Quel giorno non accadde nulla e lei rimase sullo scoglio fino a quando la barca si allontanò. Solo dopo, per allentare la tensione che l’aveva quasi paralizzata, si concesse una lunga nuotata sotto la superficie biancastra del mare.
Intanto Nonno Pasqualino, ritirando la rete aveva notato un grosso buco e in cuor suo, pensando al tempo che avrebbe dovuto impiegare per ripararla e ai pesci che la foca gli aveva sottratto, imprecò contro l’animale e si allontanò con vogate vigorose e veloci.
Nei giorni e nei mesi successivi il pescatore ebbe numerosi incontri ravvicinati con Monica. Con il passare del tempo i due incominciarono ad abituarsi alla rispettiva presenza. Monica, costatato che l’uomo sulla barca si disinteressava di lei e perciò non rappresentava un reale pericolo, se ne rimaneva tranquilla sullo scoglio, vigile ma rilassata; Nonno Pasqualino, dal suo canto, osservava la foca più a lungo e con curiosità. In qualche caso, quando l’animale decideva di tuffarsi in acqua, ne ammirava le rapide ed eleganti evoluzioni attratto dalla sua grazia flessuosa.
Un bel giorno, era una tersa mattina di marzo, accadde quello che da tempo l’uomo avrebbe voluto accadesse. Se la curiosità aveva spinto Monica a sfidare la presenza dell’uomo, lo stesso desiderio aveva indotto l’uomo a superare la sua irragionevole paura. Per tutto il periodo precedente egli aveva riflettuto a lungo sul potere incantatore delle foche e le sue riflessioni lo portavano ad escluderlo. “Sarà stato”, pensava, “un modo per giustificare un evento inspiegabile, la trovata fantasiosa di qualcuno per rendere la vicenda più interessante e misteriosa”. In effetti anche lui raccontava ai suoi nipotini le storie degli “scazzamurreddhri” e delle “macare”, ma era ben lungi dal credere alla loro esistenza e ai poteri sovrannaturali di quegli essere fantastici.
Quel giorno di aprile Nonno Pasqualino si sentiva particolarmente leggero. I suoi sensi erano stimolati dalla bellezza di una tranquilla mattina in cui tutto predisponeva all’allegria e al buon umore: il mare era calmo e rifletteva tremulo i dorati raggi del sole già alto sull’orizzonte; una leggerissima brezza, pregna dei delicati profumi primaverili, soffiava da tramontana; intorno il silenzio era rotto di tanto in tanto dal verso di qualche gabbiano, dal frullare di ali di un martin pescatore e dal tonfo dei pesci che giocavano sull’acqua.
In quell’atmosfera Nonno Pasqualino si sentiva in armonia con il mondo e guardò verso Monica con la stessa spontaneità che aveva riservato a tutte le altre creature e ai luoghi. Poiché la distanza tra la barca e lo scoglio era abbastanza ravvicinata, il suo sguardo incontrò quello della foca.
Nel breve volgere di qualche attimo nella mente dell’uomo si affollarono i racconti di morte e i suoi pensieri sulla loro infondatezza. Istintivamente volse lo sguardo altrove e fece arretrare la barca, concentrandosi sulle cose da fare. Passati alcuni minuti senza che si verificassero gli effetti temuti, l’uomo si rinfrancò e gli tornò l’allegria.
La mattina passò veloce, la pesca fu anche abbondante. Ripassando nei pressi della “Nzurfarata” Nonno Pasqualino rivide la foca stesa al sole, la guardò con naturalezza e con la stessa naturalezza, in segno di amicizia, le lanciò allegramente uno sgombro. Monica guardò il lancio con un movimento della testa e istintivamente scese in acqua per recuperarlo.
La scena si ripeté, in seguito, tutte le volte che il pescatore aveva realizzato una buona pesca e si trovava a passare nei pressi della grotta.
Un giorno di giugno Nonno Pasqualino si era recato a pescare nei pressi di un tratto di costa chiamato “Ciularu”[5], quando a una decina di metri dalla barca vide emergere il muso di Monica. L’uomo la riconobbe e con gesto spontaneo prese un pescetto e lo lanciò nella sua direzione. Monica lo prese al volo, lo mangiò e felice inscenò un veloce ed elegante balletto nelle limpide acque di quel mare tranquillo.
Da quel giorno tra il pescatore e la foca nacque un’amicizia profonda. Monica si faceva vedere spesso nei pressi della barca e Nonno Pasqualino non mancava di ricompensarla con delicati bocconcini, molto graditi dalla foca.
Le due paure
contrapposte si erano sciolte grazie ad un piccolo sforzo di volontà. La
curiosità che aveva spinto la foca e l’uomo a superare le resistenze indotte
dalle convenzioni e dai condizionamenti delle abitudini li aveva ripagati con
una nuova conquista: la foca aveva imparato che non tutti gli uomini sono
uguali, che tra gli umani ci sono persone affidabili che non fanno del male
alle foche; l’uomo aveva sperimentato l’inesattezza di certe credenze tramandate
nel tempo e aveva avuto la conferma che la ragione e il pensiero intelligente sono
strumenti insuperabili per affrontare e comprendere la realtà.
Fine 2a puntata
Continua
[1] Cicureddhre. Comprende vari tipi di erbe selvatiche che si mangiano, in genere, lesse con un filo d’olio extravergine d’oliva.
[2] Gli “scazzamurreddhri” sono la versione locale dei diavoletti impertinenti che si installano nelle case e possono, alternativamente, provocare eventi favorevoli o sfavorevoli alle famiglie che le abitano. Un ruolo simile hanno i dibbuk nella tradizione ebraica dell’est europeo.
[3] Le “macare” (megere, streghe) sono donne che di notte assumono le sembianze di qualche animale (gatto, lupo ecc.) per poi ritornare, al mattino, alla loro condizione umana. Esse non conservano il ricordo della metamorfosi.
[4] Gli sgabellini usati dai bambini prendono il nome dialettale di “vancuteddhri”.
[5] “Ciularu” significa luogo delle “ciole”, perché negli anfratti della scogliera nidifica numerosa una specie di corvidi, molto gioiosa e ciarliera.
Come si vede che il cuore è rimasto qui... Noi siamo il posto della nostra fanciullezza, della nostra crescita. Questi luoghi sono il nostro cuore, il nostro amore per sempre...
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