IL RITORNO DEL BARONE WENCKHEIM
di László Krasznahorkai
Premessa
Ho appena terminato la lettura dell’ultimo romanzo di László Krasznahorkai, Il ritorno del Barone Wenckheim, Bompiani, Milano 2019. Un respiro profondo per superare la sensazione di coinvolgente stordimento con cui la scrittura fluviale dell’autore ungherese mi ha trasportato nel mondo stralunato delle sue narrazioni e, guardandomi intorno,
recuperando il rapporto consueto con le cose e le persone che mi circondano, rientrare nella dimensione ordinaria, stabile tuttosommato e in qualche modo coerente. Il contrario del mondo e delle atmosfere in cui Krasznahorkai ambienta le sue storie. Questa e anche le precedenti: Satantango del 1985; Melancolia della resistenza del 1989; Guerra e guerra del 1999. Il paesaggio in cui si muovono i personaggi è degradato, dominato da agenti atmosferici ostili, opprimente; una condizione che rallenta e ostacola le relazioni sociali, di per sé fragili perché condizionate da un contesto politico-economico disgregato e disaggregante. È un tempo di crisi persistente e irrisolta quello fotografato da Krasznahorkai: dagli anni della glasnost gorbačëviana di Satantango fino all’oggi de Il ritorno del Barone Wenckheim; anni trascorsi nell’immobile attesa che succeda qualcosa di non definito, sulla quale non si ha alcuna influenza, dalla quale ci si attende l’impulso di una rinascita. Nell’attesa, le speranze degli spaesati personaggi sono riposte in qualche falso profeta, anche involontario come accade al barone Wenckheim, per essere puntualmente disilluse e sciogliersi nella catastrofe che, come una punizione fatale, pone fine alle illusioni e alla narrazione.Questo è lo schema entro il quale si dipana la trama di tutti i romanzi di Krasznahorkai. Anzi, come testimoniato dallo stesso autore in un’intervista, dell’unico romanzo riscritto, per insoddisfazione, per ben quattro volte. Lo stesso romanzo il cui titolo, secondo lo stesso autore, potrebbe essere Sconfitta, con il sottotitolo di Manicomio come rifugio1. Con un avvertimento: ad ogni riscrittura “l’autore è ancora più cattivo, oscuro, pessimista. Ogni romanzo successivo è una cappa ancora più opprimente, fumigante e impenetrabile”2.
La trama
Il romanzo narra del ritorno di due illustri personaggi in una periferica cittadina ungherese soffocata dall’immobilismo e dall’attesa inoperosa che accada qualcosa.
Il primo, il Professore, stimatissimo esperto mondiale di muschi, aveva rinunciato alla scienza e alla ricerca quando si era reso conto dell’inutilità di tutto ciò che sapeva solo lui, e per estensione dell’inutilità di qualsiasi cosa di cui si era occupato fino ad allora. Aveva rinunciato a tutto, anche al pensiero, che si concedeva ancora per un massimo di due ore al giorno, rintanato in una baracca ubicata al centro del Roseto, “una zona completamente selvaggia, quasi impenetrabile e abbandonata a se stessa che si estendeva a nord della città”.
L’altro, il Barone, un nobile squattrinato e indebitato, in fuga dall’Argentina, il cui ritorno nel Paese d’origine aveva suscitato un interesse spasmodico e un’attesa quasi messianica in tutta la città a causa dell’infondata notizia che il suo ritorno fosse motivato dalla filantropica volontà di investire l’ingente patrimonio in opere di pubblica utilità e in proficue attività economiche.
La vicenda del Professore fa quasi da contorno a quella del Barone, ma è importante come guida per intendere il progetto creativo dell’autore, il fondamento della sua ricerca; oltre al significato e alla funzione dell’incendio finale che distrugge la città, razionalmente inspiegabile, che forse solo lo Scimunito, l’unico a salvarsi, può osservarne gli effetti senza rabbrividire nella disperazione.
Il Professore aveva sì rinunciato a pensare, ma nella sua lucida follia intuiva l’inanità e inutilità dell’uomo di fronte all’incommensurabilità della natura e degli eventi caotici e casuali che ne governano il corso. Riflessione alla quale si sovrappone la filosofica e inevitabile domanda del rapporto tra l’uomo e dio (o Dio, con l’iniziale maiuscola): un rapporto mediato dalla paura (sostiene il Professore in un solitario discorso ad alta voce rivolto a un bastardino peloso e scodinzolante), la sola forza “in grado di determinare alcunché negli universi organici e inorganici, … la paura essenza dell’esistenza”.
La figura del Barone è centrale nella dinamica della narrazione, nonostante la sua ritrosia ad esserlo. Lui è solo animato dal desiderio di rivedere la ragazza Marietta (oramai vecchia come lui) della quale si era invaghito da giovane. La vede, la incontra e non la riconosce, così come non riconosce la città e gli altri luoghi del suo ricordo. In fondo era il tempo del ricordo che cercava e non poteva ritrovare, neanche in una realtà dove il tempo persiste e gli uomini sono collocati sullo sfondo, come oggetti, sono parte del paesaggio.
Intorno all’arrivo del Barone si avvicenda una serie di personaggi che con il loro affannarsi, le loro speranze, le aspettative, i propositi di rivalsa, le meschinità, costruiscono la storia narrata che, schematizzando, può essere riassunta in quattro fasi: l’attesa, la morte del Barone e la scoperta del grande inganno, il tentativo di cancellarne la memoria, la catastrofe.
L’attesa attiva la speranza collettiva del cambiamento e prepara l’accoglienza dell’illustre concittadino, il quale, inconsapevole, di fronte alla baraonda dei festeggiamenti si ritrae intimidito e smarrito, si defila per realizzare il sogno di incontrare Marietta, con la quale aveva anche intrattenuto una breve corrispondenza.
La morte del Barone è accidentale, avviene in un momento che può sembrare di consapevolezza e di decisione, frustrato da un evento casuale. Essa prelude alla scoperta della reale condizione del Barone e causa la reazione stupita, incredula della città che cerca di dimenticare e di cancellare le prove del suo disinganno, quelle materiali e quelle intime coltivate in segreto da ciascun interprete della rappresentazione. La città ne è scossa, sembra rimbalzare all’indietro, ricade nella precedente situazione di annichilente attesa. Questa volta, però, l’attendere è causa di rassegnato sconforto ed è punteggiato da eventi casuali inspiegabili che accentuano la paura, l’incertezza e lo smarrimento collettivi. In un crescendo di fenomeni che si potrebbero definire paranormali o allucinatori, la comunità si rinchiude in se stessa, ognuno cerca un rifugio in cui nascondersi, si ferma ogni attività, tutto implode fino ad essere travolto dall’incendio su cui, sulle note di una filastrocca sommessamente cantata e diretta dallo Scimunito che, “come un diretto d’orchestra che dà il segnale a un pubblico invisibile, con voce allegra gli lanciò l’esortazione finale. E adesso tutti insieme”, cala il sipario.
Considerazioni finali
Scrivevo in premessa di “coinvolgente stordimento della scrittura fluviale” di László Krasznahorkai. Il testo si compone di frasi lunghissime e articolate: ogni frase un paragrafo in cui l’autore intreccia vicende che si susseguono senza soluzione di continuità, sovrapponendosi e scavalcandosi, in un flusso incessante che utilizza un originale discorso indiretto libero.
Questo profluvio di parole potrebbe sembrare – a chi è abituato o predilige il discorso conciso, le frasi brevi – difficile da comprendere. In realtà non lo è perché quella scrittura “labirintica e sinuosa”, ti cattura portandoti nel vivo dell’azione e della psicologia dei personaggi, ti fa partecipe del mondo squassato che descrive e delle vite inutili dei personaggi. D’altronde, come dice Krasznahorkai nell’intervista sopra citata, le cose e le situazioni complesse non possono essere descritte “nei limiti di frasi brevi, precise, sintetiche”, è necessario “un unico flusso di frasi, una frase-fiume, le cui leggi atterranno più a quelle della musica”. E conclude: “Sto cercando di lanciare un avvertimento sull'arrivo della fine del mondo. Dovrei essere breve e conciso? La posta in gioco è troppo grande”.
Per concludere: “Il ritorno del barone Wenckheim è un romanzo potente, sfibrante, disperato e nero. È un romanzo che sfida non solo il lettore bensì l’atto stesso dello scrivere e del narrare, che porta al limite il concetto stesso di romanzo. È un capolavoro della contemporaneità, e uscirne vivi un atto di coraggio”3
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1. A. Raveggi- https://www.esquire.com/it/cultura/libri/a29720416/laszlo-krasznahorkai-intervista/
2. F. Polenchi - https://www.labalenabianca.com/2019/12/09/ritorno-del-barone-wenckheim-laszlo-krasznahorkai/
3. D. Valentini - https://www.criticaletteraria.org/2019/12/krasznahorkai-il-ritorno-del-barone-wenckheim.html
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