Il mio nome anagrafico è Guglielmo, ma sin da piccolo mi hanno chiamato Memo per via di quella simpatica abilità bambinesca di declinare le parole nello stravagante linguaggio lallico che tanto commuove gli adulti. Memo è il nome che io stesso mi sono imposto all’età di dieci mesi quando per la prima volta, per gratificare la costanza di mio padre che quotidianamente mi sottoponeva a logoranti sedute di dizione, emisi un suono sillabico e lo reiterai con la variante della vocale finale in un bisillabico “mme-mmo”, con l’accentuazione della sonorità delle due consonanti, che comunque segnava una tappa notevole nell’evoluzione del mio linguaggio: dall’iniziale ripetizione di suoni tipo “mma-mma”, “nna-nna”, “ppa-ppa”, sempre caratterizzati dalla forzata accentuazione della sonorità, il mio corredo linguistico, a causa di quell’unico cambiamento vocalico, registrava una variazione del cinquanta per cento, che in tutta sincerità non era davvero poco, e che comunque rese così felice mio padre da indurlo a un entusiastico battimani accompagnato da un’esplosione di «Bravo Guglielmo …», «Evviva …» ecc. e da gratificanti effusioni affettive che lì per lì mi diedero una gioia tale da predispormi benevolmente alla replica ogni qualvolta ne venivo richiesto.E così il mio vero nome, Guglielmo, fu quasi dimenticato, resistette soltanto come l’identificativo anagrafico che faceva bella mostra di sé nei documenti ufficiali, mentre per tutti fui Memo. Il cambiamento non fu senza conseguenze.
Non che io ritenga degna di credito l’antica massima che nel nome identifica il destino di una persona, e non solo perché non credo nella predeterminazione (neanche nel suo contrario che vorrebbe ognuno artefice del proprio destino), ma per la banale considerazione che ho fiducia nell’indipendenza del pensiero e nella responsabilità individuale, ma so anche che ogni uomo sceglie e decide in condizioni di incertezza, dominato da fattori sociali naturali psicologici che non controlla, tanto da rendere del tutto imprevedibile il comportamento e le sue scelte, oltre che aleatorio l’esito delle azioni.
Il nome di un individuo, di per sé, non ne determina il carattere o la personalità, né gli condiziona l’esistenza, semplicemente permette di identificarlo nella massa; né è insolito, anzi è più comune di quanto ci si possa aspettare, l’uso di diminutivi vezzeggiativi abbreviazioni variazioni ecc. che fanno le veci del nome e in questa funzione esauriscono il loro compito. Il nome Giovanni, per esempio, viene declinato in Gianni Nanni Vanni Zanni Giannino Giovannino Nino; Giuseppe si trasforma in Beppe Peppe Peppo Pippo Pino Pinuccio Pinin Peppino Geppino; senza che alcuno di questi ipocoristici nella sua funzionalità o tenerezza o affettuosità perda il suo significato originale. Non è stato così per me.
Memo non è solo un ipocoristico di Guglielmo (o di Domenico), ha un significato proprio che gli deriva da “memoria”, di cui è l’abbreviazione di uso corrente nella neolingua della comunicazione di massa contemporanea; e poiché la memoria rimanda al ricordo e il ricordo pretende il racconto, ho maturato la convinzione che il nome abbia influenzato le mie attitudini e il mio carattere. Non saprei dire se il condizionamento sia un fatto esterno da imputare alle cure degli adulti che mi hanno educato nei primi anni di vita, oppure sia riconducibile ad un successivo autonomo inconscio impulso di identificazione maturato negli anni della mia formazione, fatto sta che all’età di trentacinque anni mi ritrovai ossessionato dalla memoria e dal racconto.
Non che io ritenga degna di credito l’antica massima che nel nome identifica il destino di una persona, e non solo perché non credo nella predeterminazione (neanche nel suo contrario che vorrebbe ognuno artefice del proprio destino), ma per la banale considerazione che ho fiducia nell’indipendenza del pensiero e nella responsabilità individuale, ma so anche che ogni uomo sceglie e decide in condizioni di incertezza, dominato da fattori sociali naturali psicologici che non controlla, tanto da rendere del tutto imprevedibile il comportamento e le sue scelte, oltre che aleatorio l’esito delle azioni.
Il nome di un individuo, di per sé, non ne determina il carattere o la personalità, né gli condiziona l’esistenza, semplicemente permette di identificarlo nella massa; né è insolito, anzi è più comune di quanto ci si possa aspettare, l’uso di diminutivi vezzeggiativi abbreviazioni variazioni ecc. che fanno le veci del nome e in questa funzione esauriscono il loro compito. Il nome Giovanni, per esempio, viene declinato in Gianni Nanni Vanni Zanni Giannino Giovannino Nino; Giuseppe si trasforma in Beppe Peppe Peppo Pippo Pino Pinuccio Pinin Peppino Geppino; senza che alcuno di questi ipocoristici nella sua funzionalità o tenerezza o affettuosità perda il suo significato originale. Non è stato così per me.
Memo non è solo un ipocoristico di Guglielmo (o di Domenico), ha un significato proprio che gli deriva da “memoria”, di cui è l’abbreviazione di uso corrente nella neolingua della comunicazione di massa contemporanea; e poiché la memoria rimanda al ricordo e il ricordo pretende il racconto, ho maturato la convinzione che il nome abbia influenzato le mie attitudini e il mio carattere. Non saprei dire se il condizionamento sia un fatto esterno da imputare alle cure degli adulti che mi hanno educato nei primi anni di vita, oppure sia riconducibile ad un successivo autonomo inconscio impulso di identificazione maturato negli anni della mia formazione, fatto sta che all’età di trentacinque anni mi ritrovai ossessionato dalla memoria e dal racconto.
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