SATANTANGO
Il romanzo cult da cui è stato tratto l'omonimo film in 7 episodi per oltre 6 ore di proiezione. Assolutamente da leggere e da vedere.
Una recensione tardiva di Antonio ELIA
Satantango (1985) è il primo romanzo di László Krasznahorkai, il primo di una quadrilogia che, a dire dello stesso autore, è sempre la riscrittura dello stesso romanzo: il riconoscimento di un fallimento, di una sconfitta. Non la pensano allo stesso modo né i critici né i lettori che non hanno esitato a definirlo un capolavoro assoluto della letteratura del novecento. Satantango (come non lo saranno i successivi romanzi) non è un’opera di facile lettura. La sua prosa, citando l’affermazione del traduttore inglese, è una “lenta colata di lava narrativa”
che si sviluppa in periodi lunghi e agglutinanti fino a scardinarne la struttura formale e sintattica nell’episodio del sogno collettivo che chiude il cap. V della seconda parte; caratteristica che si andrà accentuando nel tempo fino a diventare, nell’ultimo e definitivo romanzo (Il ritorno del barone Wenckheim del 2016), un flusso lungo quanto i singoli capitoli, senza interruzioni e “a capo”. Abbandonandosi alla lettura si è catturati e trasportati nelle profondità dell’oscura condizione umana in cui sono avviluppati, quasi prigionieri di se stessi, i personaggi che galleggiano sulla superficie di quel flusso, incapaci di cogliere il senso della loro condizione, di darsi delle risposte e assumere decisioni. Dalla lettura si emerge frastornati ma non delusi né annoiati; direi arricchiti se non fosse ovvio e limitante, perché ciò che si riporta in superficie è una serie di domande esistenziali che riguardano il senso della vita e del posto che la nostra specie occupa nell’universo. Le risposte che Krasznahorkai lascia intravedere non sono rassicuranti, ci rimandano l’idea dell’impotenza degli uomini, alla stregua di qualunque oggetto, «nella sfera immobile dell’eternità». Il testo, suddiviso in due parti e dodici capitoli la cui numerazione va dal I al VI, per poi retrocedere dal VI al I, ha un andamento circolare in cui la conclusione è un ritorno al punto di partenza (fisico e letterario): le ultime tre pagine riproducono le prime tre e innescano una sorta di rispecchiamento in cui si confonde il reale e l’immaginario, e non si è in grado di dire se gli avvenimenti descritti siano il risultato dell’osservazione di un agente esterno (il dottore, alter ego dello scrittore) o l’effetto della sua immaginazione.Un romanzo ricorsivo, quindi, come è stato detto da molti recensori con gli esempi de Le mille e una notte, dell’Amleto shakespeariano, de Il Giardino dei sentieri che si biforcano di J. L. Borges; ma non lo sottolineo per richiamare l’attenzione sull’ipotesi del romanzo che riproduce se stesso all’infinito. Sottolineo, piuttosto, che al centro del circuito ricorsivo troviamo la letteratura, cioè la sua capacità di descrivere il mondo attraverso le sue “scuciture” (Scucitura è anche il titolo del penultimo capitolo della prima parte la cui protagonista è Estike, una piccola deficiente che suicidandosi apre decisivi spiragli narrativi e suggerisce significative riflessioni esistenziali), gli inserti visionari, gli scarti logici e i paradossi, esclusi nella descrizione della realtà operata da un osservatore esterno e razionale.
La vicenda si svolge nella profonda campagna ungherese qualche anno prima della caduta del muro di Berlino. Un piccolo gruppo di abitanti di una fattoria collettiva dismessa sopravvive nell’incertezza di un futuro privo di prospettive, attende fatalisticamente che accada qualcosa nella convinzione che «la situazione non può essere davvero così irrimediabile come sembra». L’incantamento sembra rompersi quando si diffonde la notizia che allo “stabilimento” stanno per arrivare Irimiás e Petrina, due vecchie conoscenze con la fama, soprattutto il primo, di essere «il salvatore delle situazioni e delle persone senza speranza», «un gran mago, capace di costruire i castelli con la merda… ogni volta che vuole».
La notizia dell’arrivo riunisce i superstiti nella kocsma (bettola) dello stabilimento dove, tra bevute, volgarità, ammiccamenti e danze sfrenate sulle note di un tango ripetuto all’infinito – un tango satanico, come ebbe a dire la signora Halics a causa del desiderio degli uomini per le tette diaboliche della signora Schmidt che conosceva bene «tutti i sordidi letti della provincia» – cercano di allontanare da sé il senso di vuoto, di disperazione e la consapevolezza della dissoluzione incombente che li aveva annichiliti.
Irimiás, personaggio ambiguo e indubbiamente affascinante, impegna il suo carisma per raggirare e derubare l’illuso gruppo di sprovveduti, frustrandone la speranza di riscatto e consegnandolo, con disprezzo (vedi il penultimo capitolo), nelle mani di un potere che sovrasta anche lui e lo illustra nella sua dimensione reale di impotente, seppur ingegnoso, magliaro di provincia e confidente prezzolato della polizia.
Sgretolamento e rassegnazione
Il romanzo si apre con un inesplicabile e spettrale suono di campane i cui rintocchi svegliano Futaki, (il più riflessivo del cast, dopo Irimiás) il quale con il suo filosofico (?) sguardo sul mondo dal vano di una finestra introduce alcune questioni cardine della narrazione. Vale la pena di fissarle e non perderle di vista.
Ogni sguardo, ogni osservazione ambientale descrive un paesaggio alienato, duro e faticoso dove è impossibile continuare a vivere: un fetido mare di fango alimentato da una pioggia incessante; cascine in rovina e decapitate del proprio tetto; credenze pentole e piatti che scricchiolano, crepitano e scivolano; muffa che ricopre muri e vestiti; posate che arrugginiscono; ragni satanici, tarli e tafani dei quali è impossibile contenere l’azione distruttrice.
Su questo sfondo si recita il dramma della piccola comunità senza speranza e senza prospettive: un dramma reso più cupo dall’inesplicabile essenza della condizione umana – «nasciamo dentro un mondo recintato» – impotente al cospetto di forze invincibili che non consentono strategie di difesa; a cui non è dato neanche conoscere il proprio ruolo nel mondo: «a cosa serviva in fin dei conti questo Futaki»; né per quale motivo «pur potendo e volendo vivere fino alla fine dei tempi … [dovesse] sparire da qui, finire laggiù, in mezzo ai vermi, nella melma buia e puzzolente».
È ancora Futaki, nell’incipit del romanzo, a spiegare queste sensazioni:
«Vide se stesso, sulla croce della culla e della bara, mentre con fatica si contraeva ancora un’ultima volta, per poi ritrovarsi, in virtù di un ordine perentorio e ineluttabile, completamente nudo – senza alcun segno di distinzione o d’identificazione – nelle mani dei beccamorti, tra i ghigni di quegli indaffarati scuoiatori di cadaveri, dove non poteva non cogliere la misura di tutte le cose umane, senza un’ombra di pietà, senza che ci fosse anche un solo sentiero a riportarlo indietro, perché a quel punto sarebbe stato ormai consapevole del fatto che aveva sempre giocato con bari contro cui non era possibile vincere, essendo tutte le carte del gioco predeterminate: si trattava di una partita truccata alla fine della quale sarebbe stato privato anche dell’ultima sua arma, la speranza, la speranza di poter un giorno ritrovare la strada di casa».
L’uomo, quindi, per tutta la vita, dalla culla alla bara, si dibatte inutilmente per affermare la propria individualità e la propria personalità, ritrovandosi al termine della sua esistenza con l’unica certezza che la partita della vita è truccata in virtù di un ordine perentorio e ineluttabile che traccia percorsi impossibili da abbandonare per percorrere strade diverse e alimentare una speranza che non è data.
Domande senza risposta che – in assenza di possibili aiuti o vie di fuga – impongono di rassegnarsi al proprio destino: come un ramoscello d’acacia (impotente contro la pioggia che lo sferza) o come i maiali che «non hanno alcun sentore del fatto che la provvidenza oscillante sopra la loro placida, in quanto ripetitiva, quotidianità non è altro che un raggio di luce … che si riflette sull’acciaio del coltello da macellaio».
L’inganno farsesco del tempo
«Guardò tristemente il cielo funesto, i residui riarsi dell’estate segnata dall’invasione di cavallette, e d’improvviso su un unico ramoscello d’acacia vide passare la primavera, l’estate, l’autunno e l’inverno, e gli sembrò di percepire la totalità del tempo come un inganno farsesco nella sfera immobile dell’eternità, che attraversa la discontinuità del caos creando la satanica finzione di un percorso rettilineo, spacciando tramite una falsa prospettiva l’assurdo per necessità…».
La riflessione intuisce una rappresentazione metafisica del tempo che disconosce il tempo umano inteso come percezione psicologica del presente e assume quella del tempo naturale (ciclico), ingannevole nella sua immobilità cosmica che irretisce anche l’uomo e la sua pretesa di autodeterminazione.
Di ciò sembra essere consapevole Irimiás il quale (Prima parte, cap. II), osservando due orologi appesi al muro, mentre attende insieme a Petrina di conferire con l’ufficiale di polizia che li ha convocati, stupisce l’inconsapevole amico affermando: «I due orologi misurano in realtà due tempi diversi, sebbene entrambi con una buona dose di inesattezza. Questo qui – e punta l’indice lungo, magro e affusolato verso l’alto – è decisamente indietro, mentre quell’altro laggiù… non segna nemmeno il tempo, bensì l’eternità dell’assoggettamento, e ci riguarda né più né meno di quanto la pioggia riguardi un ramoscello: siamo impotenti nei suoi confronti».
La narrazione sembra ambientata in una dimensione estranea al tempo storico, misurato dalla percezione umana. Certo, s’intuisce che la vicenda si collochi nel periodo della perestroika sovietica e della crisi dei Paesi socialisti; tuttavia, nonostante il contesto, il romanzo non affronta il tema del fallimento dei regimi collettivistici, e potrebbe indifferentemente riguardare un periodo del tutto diverso.
Il fallimento c’è ed è rappresentato; riguarda ogni aspetto della condizione sociale-economica-psicologica-relazionale della derelitta comunità dello stabilimento ed è descritto senza alcuna attenuazione, evidenziando la condizione rinunciataria e inconsapevole dei protagonisti che vivono in un mondo recintato, ridotti «come i maiali che si rotolano nel proprio sozzume» senza sapere «a cosa serva tutta questa mischia intorno alle mammelle che ci nutrono, che senso abbia questo perpetuo corpo a corpo nella corsia che porta alla mangiatoia, o la lotta per i giacigli al tramonto», che restano in attesa di un Godot che li liberi dalle secche in cui sono arenati, abbrutiti e indifferenti, senza sapere che per loro non c’è speranza.
Niente in cui sperare.
Cosa rimane se anche la speranza viene frustrata? Se l’atteso messia si rivela un impostore impotente? Non resta niente, niente che possa essere controllato dalle deboli facoltà umane.
L’inserimento nel contesto narrativo di una serie di eventi satanici, al limite del soprannaturale (rintocchi spettrali di campane inesistenti; rumori demoniaci di sottofondo nella notte in cui Irimiás e Petrina sono in cammino verso lo stabilimento; risate sataniche nei pressi del castello di Wenckheim; veli che si librano in aria per poi dissolversi durante la caduta, levitazione e sparizione tra le nuvole del cadavere di Estike), che suscitano reazioni di tipo mistico in Petrina e altri, sembrerebbe indicare la via della consolazione religiosa; ma neanche questa è un’ipotesi percorribile. Non lo è per Krasznahorkai che già nel titolo del capitolo “Andare in Paradiso? Delirare?” mostra il suo scetticismo; come non lo è per Irimiás che lo esplicita con maggiori dettagli nel dialogo con Petrina, la cui conclusione è di questo tenore:
«Anche se adesso abbiamo visto qualcosa, non vuol dire niente. Paradiso? Inferno? Oltretomba? Stupidaggini. Sono sicuro che ci stiamo sbagliando su queste cose. E per quanto facciamo lavorare la nostra immaginazione, non ci avvicineremo di una virgola alla verità… Perché dio non si manifesta tramite le parole, zuccone. Non si manifesta proprio per niente. Non si mostra. Non esiste… Dio è stato un errore. Perché ho capito che tra me e un insetto, tra un insetto e un fiume, tra un fiume e un urlo che lo scavalca, non c’è alcuna differenza. Tutto è vuoto, senza senso, funziona solo a causa della pressione di una fluttuazione caotica, senza tempo, ed è la nostra immaginazione, e non il perpetuo fallimento dei nostri sensi, a portarci verso la continua tentazione della fede, nella speranza che prima o poi riusciremo a evadere dai nostri miseri rifugi. Non c’è scampo, zuccone». «E me lo dici proprio ora? – protestò Petrina – Adesso? Dopo che abbiamo visto quel che abbiamo visto?» Irimiás fece una smorfia amara. «Proprio per questo dico che non riusciremo mai a evadere. Tutta questa faccenda è stata inventata proprio per bene. La cosa migliore è non provarci nemmeno, e non credere ai tuoi occhi. È una trappola, Petrina. E noi ci caschiamo sempre. Quando crediamo di esserci appena liberati, in realtà abbiamo solo aggiustato i lucchetti. È stata inventata proprio per bene tutta questa cosa».
Il cerchio si chiude
Nell’ultimo capitolo, il ritorno sulla scena del dottore dopo il ricovero in ospedale nella notte dell’arrivo di Irimiás allo stabilimento ci fornisce alcune indicazioni per comprendere come resistere alla disperazione, alla rassegnazione e all’inganno.
Scrive Krasznahorkai riferendo del dottore reinstallato nella sua camera-osservatorio dopo aver decodificato il messaggio inequivocabile del suono delle campane (anche lui lo aveva ascoltato, scoprendone la provenienza): «In quei suoni strani e lontani gli sembrò di percepire ‘la melodia di una speranza creduta ormai persa’» che lo aveva fatto entrare «in possesso di una capacità unica, grazie alla quale poteva contrastare la sfida delle cose nel loro perenne fluire verso un’unica direzione, in quanto non si limitava a descrivere, ma poteva anche determinare in una certa misura la struttura elementare degli eventi che turbinavano in apparente libertà».
Che non è il vaneggiamento di un misantropo rinchiuso nella sua stanza e ossessionato dall’impegno di «osservare con attenzione e di “documentare” con continuità tutto quanto, cercando di non lasciarsi sfuggire nemmeno i più piccoli dettagli», è una dichiarazione d’intenti dello stesso autore, che suggerisce al suo alter ego la seguente, decisiva riflessione: «l’unica cosa che poteva fare per contrastare quello sfascio sinistro e insidioso era fissare i ricordi poiché … solo così si poteva sperare nel fatto che un giorno non saremmo diventati tutti ostaggi muti e insignificanti dell’ordine satanico in continua dissoluzione e ricostruzione».
Che è come riconoscere all’immaginazione e all’impegno creativo una funzione resistenziale capace di tenere accesa la scintilla dell’autodeterminazione e della libertà. Ed è questo, a mio avviso, il messaggio in bottiglia di László Krasznahorkai.
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