In ricordo di un caro amico |
In ricordo di un caro amico
Il programma di sala suggeriva interessanti suggestioni nel confronto tra la musica francese dei primi anni del Novecento e le atmosfere americane che tanto avevano coinvolto, dopo il loro sbarco a New York, musicisti europei del calibro di Ravel, Dvorak, Bartok, Schostakovic e Schoemberg: nella prima parte era prevista l’esecuzione di brani di L. Bernstein, C. Debussy e M. Ravel; nella seconda, in omaggio allo spirito della serata e all’ideale confronto tra Parigi (il vecchio continente) e New York (il nuovo mondo), due preludi per pianoforte di G. Gershwin e infine una composizione di un giovane autore contemporaneo sconosciuto al grande pubblico.
Pier Paolo durante il tempo d’attesa consultava il programma della serata; gli piaceva riflettere sul programma, sui brani musicali che sarebbero stati eseguiti e sui musicisti. Essendo un appassionato e a suo modo un attento ascoltatore, nonostante non avesse una cultura musicale strutturata né suonasse un qualche strumento o sapesse leggere uno spartito, conosceva buona parte della musica classica, aveva un orecchio allenato, sufficientemente educato e in grado di cogliere sia le differenze interpretative sia la pulizia dell’esecuzione.
La lettura del programma quella sera lo aveva particolarmente incuriosito: “Perché – si chiedeva – era stato inserito quell’ultimo brano in un certo senso fuori contesto?”.
Un significato ovviamente c’era, forse un po’ forzato, perché l’opera si ispirava alle atmosfere jazz del periodo celebrato e arrangiava in modo originale una sognante ballade di T. Monk, noto jazzista newyorkese, scritta negli anni quaranta del secolo scorso.
“Non sarebbe stato meglio eseguire la ballade di Monk – continuava a pensare Pier Paolo – o qualche altro brano che come quelli di Gershwin potesse illustrare le tendenze musicali della prima metà del Novecento americano?”
La serata si prospettava comunque interessante, la musica di sicuro impatto, l’orchestra collaudata, e poi, a dare un sapore d’attesa, c’era una viva curiosità per quell’ultimo brano.
“In verità – pensò ancora Pier Paolo – il primo brano, l’ouverture dal ‘Candide’ di Bernstein, più noto e ammirato come direttore d’orchestra che come compositore, non aveva il medesimo apprezzamento delle altre, e oltretutto nella scaletta sembrava fuori posto. Se la prima parte del concerto era dedicata ai musicisti francesi che avevano incontrato le suggestioni delle tendenze musicali del nuovo mondo, che significato assumeva l’apertura del concerto con l’ouverture bernsteiniana?”.
La musica di Bernstein, Pier Paolo lo apprendeva leggendo le note critiche inserite nel pieghevole del programma, è musica tipicamente americana, richiama le atmosfere di Broadway, il musical …
“In quanto musica americana – rifletteva Pier Paolo – perché non sta nella seconda parte del concerto?”
… ma idealmente essa rappresentava un omaggio alla Francia, culla dell’illuminismo, della cultura moderna e della libertà, per il tramite di Voltaire da cui è tratto il libretto dell’opera, che irride all’oscurantismo dell’America di McCarthy nella metà del Novecento.
Questo lo convinceva e ne comprese la collocazione:
“Un’ouverture in senso musicale e metaforico – si disse – che con il suo doppio richiamo introduce simbolicamente il tema del concerto”. Tra un saluto e l’altro ai conoscenti che sopraggiungevano, Pier Paolo era attratto dall’architettura della sala. Il piccolo auditorium in cui si teneva il concerto era stato realizzato in una vecchia chiesa sconsacrata.
La pianta originaria dell’edificio, nella sua intimità raccolta, riproduce una struttura di stile eclettico con una lieve incurvatura absidale alla quale si addossa un altare, sostegno di un retablo slanciato da quattro colonnine (due per lato) e un attico fregiato da stucchi floreali al cui centro si aprono due finestrelle rettangolari. Alla periferia dell’abside si notano, simmetricamente a destra e a sinistra, quattro nicchie ornamentali occupate da statue (quelle più vicine all’altare) e da affreschi con scene dell’antico e del nuovo testamento. Il presbiterio, sovrastato da una cupola di tipo rinascimentale, crollata nei primi decenni del Novecento e mai ricostruita, è limitato ai due lati da un motivo architettonico a forma trapezoidale, con la base maggiore addossata al muro perimetrale e gli altri lati a formare una sorta di quinta che sottolineava la separazione tra lo spazio del culto e la navata frequentata dai fedeli. I quattro angoli del trapezio sono evidenziati da finte colonne a base quadrata, incorporate nel muro, con capitelli corienzieggianti, mentre gli spazi aperti tra le colonne ospitano, nel piano basso, rettangoli affrescati con figure di santi, e nel piano alto, sotto il livello dei capitelli, tribunette da cui le monache di clausura potevano seguire i riti del culto.
Con i lavori di ristrutturazione il tetto dell’intera fabbrica era stato sostituito da una capriata di legno lamellare nello stile delle chiese preromaniche e quest’elemento rappresentava l’unico motivo di continuità con la navata, interamente ristrutturata anch’essa e ora occupata da poltrone di velluto rosso con una vista appena decente sul presbiterio, sollevato di qualche gradino, con funzione di palco. Non si nota alcuna traccia dell’antica vocazione di quello spazio, niente essendo visibile dei fregi che in passato l’abbellivano, e che oggi suscita solo l’irritante impressione di due corpi separati ed estranei, di un accorpamento posticcio.
Gli esiti della ristrutturazione indispettivano Pier Paolo che ne osservava le incongruenze: c’era uno iato stridente tra la zona absidale (il palco) e la navata (la platea), un senso d’incompiuto e di profanazione che mortifica la bellezza ieratica della parte antica, alla quale i colori sbiaditi e le forme corrose donano un fascino struggente, accentuato ancor più da quell’incauto connubio.
Per non parlare poi dell’acustica, del tutto inadeguata e distorsiva: il tetto a capriata, con la sua caratteristica forma ad angolo acuto, per di più percorso da pontoni, staffe, saette e monaci, scompone il suono in flussi che si sovrappongono e si scontrano alterandone la nitidezza e la profondità, già di per sé compromesse dal movimento di diffusione che, a causa della stretta apertura del palco verso la platea, tende a salire verso l’alto e a diffondersi per rifrazione nell’ambiente circostante. Sarebbe stata necessaria una conformazione diversa, – pensava Pier Paolo guardando quel tetto austero e inconferente – concava, a formare una sorta di parabola nella zona absidale e da lì lievemente degradante verso la platea, in modo da generare un flusso avvolgente dall’interno verso l’esterno, dall’alto verso il basso, omogeneamente diffuso dalla dolce concavità della copertura. Ma questo, lo sapeva, era stata l’ultima preoccupazione dei progettisti, i quali, limitati dalle ristrettezze del bilancio, avevano optato per una soluzione tipica dell’architettura religiosa, anche se del tutto fuori contesto. Ne era sortito un ibrido irrispettoso sia della storia del luogo, sia, a maggior ragione, della funzionalità… e di tanto, comunque, ci si doveva accontentare.
La sala intanto si era riempita quasi del tutto. All’interno si sentiva un vociare indistinto che si sollevava a folate, si abbassava per qualche istante per poi riprendere assordante. Qualcuno si attardava ancora all’esterno; altri arrivavano in ritardo, trafelati e preoccupati di non trovare posto.
La lettura del programma quella sera lo aveva particolarmente incuriosito: “Perché – si chiedeva – era stato inserito quell’ultimo brano in un certo senso fuori contesto?”.
Un significato ovviamente c’era, forse un po’ forzato, perché l’opera si ispirava alle atmosfere jazz del periodo celebrato e arrangiava in modo originale una sognante ballade di T. Monk, noto jazzista newyorkese, scritta negli anni quaranta del secolo scorso.
“Non sarebbe stato meglio eseguire la ballade di Monk – continuava a pensare Pier Paolo – o qualche altro brano che come quelli di Gershwin potesse illustrare le tendenze musicali della prima metà del Novecento americano?”
La serata si prospettava comunque interessante, la musica di sicuro impatto, l’orchestra collaudata, e poi, a dare un sapore d’attesa, c’era una viva curiosità per quell’ultimo brano.
“In verità – pensò ancora Pier Paolo – il primo brano, l’ouverture dal ‘Candide’ di Bernstein, più noto e ammirato come direttore d’orchestra che come compositore, non aveva il medesimo apprezzamento delle altre, e oltretutto nella scaletta sembrava fuori posto. Se la prima parte del concerto era dedicata ai musicisti francesi che avevano incontrato le suggestioni delle tendenze musicali del nuovo mondo, che significato assumeva l’apertura del concerto con l’ouverture bernsteiniana?”.
La musica di Bernstein, Pier Paolo lo apprendeva leggendo le note critiche inserite nel pieghevole del programma, è musica tipicamente americana, richiama le atmosfere di Broadway, il musical …
“In quanto musica americana – rifletteva Pier Paolo – perché non sta nella seconda parte del concerto?”
… ma idealmente essa rappresentava un omaggio alla Francia, culla dell’illuminismo, della cultura moderna e della libertà, per il tramite di Voltaire da cui è tratto il libretto dell’opera, che irride all’oscurantismo dell’America di McCarthy nella metà del Novecento.
Questo lo convinceva e ne comprese la collocazione:
“Un’ouverture in senso musicale e metaforico – si disse – che con il suo doppio richiamo introduce simbolicamente il tema del concerto”. Tra un saluto e l’altro ai conoscenti che sopraggiungevano, Pier Paolo era attratto dall’architettura della sala. Il piccolo auditorium in cui si teneva il concerto era stato realizzato in una vecchia chiesa sconsacrata.
La pianta originaria dell’edificio, nella sua intimità raccolta, riproduce una struttura di stile eclettico con una lieve incurvatura absidale alla quale si addossa un altare, sostegno di un retablo slanciato da quattro colonnine (due per lato) e un attico fregiato da stucchi floreali al cui centro si aprono due finestrelle rettangolari. Alla periferia dell’abside si notano, simmetricamente a destra e a sinistra, quattro nicchie ornamentali occupate da statue (quelle più vicine all’altare) e da affreschi con scene dell’antico e del nuovo testamento. Il presbiterio, sovrastato da una cupola di tipo rinascimentale, crollata nei primi decenni del Novecento e mai ricostruita, è limitato ai due lati da un motivo architettonico a forma trapezoidale, con la base maggiore addossata al muro perimetrale e gli altri lati a formare una sorta di quinta che sottolineava la separazione tra lo spazio del culto e la navata frequentata dai fedeli. I quattro angoli del trapezio sono evidenziati da finte colonne a base quadrata, incorporate nel muro, con capitelli corienzieggianti, mentre gli spazi aperti tra le colonne ospitano, nel piano basso, rettangoli affrescati con figure di santi, e nel piano alto, sotto il livello dei capitelli, tribunette da cui le monache di clausura potevano seguire i riti del culto.
Con i lavori di ristrutturazione il tetto dell’intera fabbrica era stato sostituito da una capriata di legno lamellare nello stile delle chiese preromaniche e quest’elemento rappresentava l’unico motivo di continuità con la navata, interamente ristrutturata anch’essa e ora occupata da poltrone di velluto rosso con una vista appena decente sul presbiterio, sollevato di qualche gradino, con funzione di palco. Non si nota alcuna traccia dell’antica vocazione di quello spazio, niente essendo visibile dei fregi che in passato l’abbellivano, e che oggi suscita solo l’irritante impressione di due corpi separati ed estranei, di un accorpamento posticcio.
Gli esiti della ristrutturazione indispettivano Pier Paolo che ne osservava le incongruenze: c’era uno iato stridente tra la zona absidale (il palco) e la navata (la platea), un senso d’incompiuto e di profanazione che mortifica la bellezza ieratica della parte antica, alla quale i colori sbiaditi e le forme corrose donano un fascino struggente, accentuato ancor più da quell’incauto connubio.
Per non parlare poi dell’acustica, del tutto inadeguata e distorsiva: il tetto a capriata, con la sua caratteristica forma ad angolo acuto, per di più percorso da pontoni, staffe, saette e monaci, scompone il suono in flussi che si sovrappongono e si scontrano alterandone la nitidezza e la profondità, già di per sé compromesse dal movimento di diffusione che, a causa della stretta apertura del palco verso la platea, tende a salire verso l’alto e a diffondersi per rifrazione nell’ambiente circostante. Sarebbe stata necessaria una conformazione diversa, – pensava Pier Paolo guardando quel tetto austero e inconferente – concava, a formare una sorta di parabola nella zona absidale e da lì lievemente degradante verso la platea, in modo da generare un flusso avvolgente dall’interno verso l’esterno, dall’alto verso il basso, omogeneamente diffuso dalla dolce concavità della copertura. Ma questo, lo sapeva, era stata l’ultima preoccupazione dei progettisti, i quali, limitati dalle ristrettezze del bilancio, avevano optato per una soluzione tipica dell’architettura religiosa, anche se del tutto fuori contesto. Ne era sortito un ibrido irrispettoso sia della storia del luogo, sia, a maggior ragione, della funzionalità… e di tanto, comunque, ci si doveva accontentare.
La sala intanto si era riempita quasi del tutto. All’interno si sentiva un vociare indistinto che si sollevava a folate, si abbassava per qualche istante per poi riprendere assordante. Qualcuno si attardava ancora all’esterno; altri arrivavano in ritardo, trafelati e preoccupati di non trovare posto.
Il concerto finalmente ebbe inizio. In platea si percepì l’effetto di quell’imminenza come una dissolvenza dell’eccitazione parossistica che aveva caratterizzato l’attesa, fino al silenzio quasi assoluto, qua e là pudicamente interrotto da qualche sporadico colpo di tosse. Poi fu soltanto musica.
Le note pizzicate o soffiate sugli strumenti iniziarono a rimbalzare nella sala agili e leggere, quasi in punta di piedi, prima di scorrere continue e impetuose come un alpestre rio che lungo la discesa s’ingrossa e prende velocità, e magari s’ingrotta lungo il fronte di una pietraia o di una gora, appena percettibile sotto l’intrico pietroso, silente oltre la gora, per riemergere di nuovo possente più a valle.
La soavità di quel canto gli fece ricordare la dolcezza di un breve soggiorno salisburghese, oramai sepolto nella memoria, durante il quale aveva goduto dal vivo un concerto diretto dal maestro Bernstein in persona; anche se non era questo a sollecitargli il ricordo, quanto la struggente levità dei vent’anni, la libertà e la spensieratezza con la quale aveva girato l’Europa, spintovi dal desiderio di conoscere il mondo e di fare esperienze di vita altrimenti impossibili … e poi il viso di Babette, tanto serio da sembrare annoiato di una noia dolente, che per qualche giorno aveva condiviso il suo vagabondare, che lo aveva trascinato al concerto, che lo aveva ammaliato parlando di musica come se la suonasse, che gli aveva aperto un orizzonte di bellezza ricco di passione radicata nel sapere, oltre la suggestione delle sensazioni, coinvolgenti ma sempre effimere, incapaci di permanere, cangianti al passo degli stati d’animo del momento, quando la bellezza dell’arte è essenza di un’azione capace di restare nel mondo oltre il suo artefice, di farsi cosa in cui la bellezza permane ed è riconoscibile sempre.
A Babette aveva pensato altre volte, sempre con nostalgia, mai però con l’intensità di allora, con la dolcezza e la percezione di assenza che lo stava impregnando.
Babette era una ragazza olandese più vecchia di lui di due anni; i lunghi capelli castani le incorniciavano un volto regolare valorizzato da due occhi espressivi e penetranti nel cui fondo si annidava un’inesplicabile espressione di tristezza che le dava un’aria concentrata e volitiva. L’aveva incontrata per caso sul ponte Carlo di Praga mentre ascoltava un gruppo di giovani musicisti di strada impegnati nell’esecuzioni di brani del repertorio classico; lei stessa era una musicista, suonava il violino in un’importante filarmonica della sua città ed amava passare le vacanze estive frequentando i festival musicali più accreditati: l’anno prima era stata al festival dei due mondi di Spoleto, quell’anno era diretta a Salisburgo e lì finì per recarsi, insieme a lei, anche Pier Paolo. I concerti frequentati con Babette gli avevano svelato un mondo sconosciuto, lei l’aveva quasi stregato con la sua passione, con le sue leggiadre lezioni d’ascolto gliel’aveva trasmessa.
Il ricordo di Babette lo distrasse, sentiva la musica come in un sottofondo, l’accompagnamento ovattato di un flashback in bianco e nero che dava ritmo e sensazioni al ricordare. Fu scosso dalle note risolute del finale, seguite da un applauso fragoroso. Le immagini, sopraffatte dal fragore dell’applauso, lo riportarono alla realtà.
Cercò di concentrarsi sul ritmo del Prélude iniziato con un pianissimo leggero, quasi sospeso, evocante sulle note del flauto e del clarinetto un senso di pace agreste, di tanto in tanto mosso dal timbro più vivace dell’orchestra che avvolge la melodia del flauto faunesco nelle dissolvenze danzanti delle ninfe; ne colse la tensione innovativa frammista ai richiami del passato, la specificità dei colori e dei timbri sonori, ma non fu in grado di persistere nel consueto atteggiamento di attenzione concentrata; il suo pensiero continuava a tornare sul volto di Babette e ogni strategia mentale per offuscarlo si rivelò inutile: il concerto divenne la colonna sonora dei suoi ricordi, di quegli anni in cui le esperienze costruiscono i gradini per affrontare la scalata della vita. E quanti sogni si costruiscono su quelle esperienze, quanti progetti e quante speranze. Il percorso era aperto a quei tempi, ricco di possibilità, o almeno così si pensava sulla spinta ottimistica dell'età. Quante delusioni anche… tra le altre, la fine della relazione con Babette, una relazione coltivata per un anno intero in attesa della prossima estate, incapace tuttavia di superare gli impedimenti della lontananza.
Le note, come evidenziatori che tracciano segni trasparenti sulle pagine, sottolineavano i suoi stati d’animo; o forse erano i suoi stati d’animo che si adattavano al fluire delle frasi musicali: i movimenti lenti e armoniosi gli sollecitavano pensieri di una dolcezza impotente che gli gravava sul cuore e si aggrovigliava nelle viscere trasformandosi in una tristezza sconfinata, dolorosa e insopportabile; i presti, i vivaci, gli allegri gli offrivano ricordi gioiosi, situazioni spensierate, a volte scoppiettanti sotto l’incalzare dei brani più mossi ed energici.
Le note pizzicate o soffiate sugli strumenti iniziarono a rimbalzare nella sala agili e leggere, quasi in punta di piedi, prima di scorrere continue e impetuose come un alpestre rio che lungo la discesa s’ingrossa e prende velocità, e magari s’ingrotta lungo il fronte di una pietraia o di una gora, appena percettibile sotto l’intrico pietroso, silente oltre la gora, per riemergere di nuovo possente più a valle.
La soavità di quel canto gli fece ricordare la dolcezza di un breve soggiorno salisburghese, oramai sepolto nella memoria, durante il quale aveva goduto dal vivo un concerto diretto dal maestro Bernstein in persona; anche se non era questo a sollecitargli il ricordo, quanto la struggente levità dei vent’anni, la libertà e la spensieratezza con la quale aveva girato l’Europa, spintovi dal desiderio di conoscere il mondo e di fare esperienze di vita altrimenti impossibili … e poi il viso di Babette, tanto serio da sembrare annoiato di una noia dolente, che per qualche giorno aveva condiviso il suo vagabondare, che lo aveva trascinato al concerto, che lo aveva ammaliato parlando di musica come se la suonasse, che gli aveva aperto un orizzonte di bellezza ricco di passione radicata nel sapere, oltre la suggestione delle sensazioni, coinvolgenti ma sempre effimere, incapaci di permanere, cangianti al passo degli stati d’animo del momento, quando la bellezza dell’arte è essenza di un’azione capace di restare nel mondo oltre il suo artefice, di farsi cosa in cui la bellezza permane ed è riconoscibile sempre.
A Babette aveva pensato altre volte, sempre con nostalgia, mai però con l’intensità di allora, con la dolcezza e la percezione di assenza che lo stava impregnando.
Babette era una ragazza olandese più vecchia di lui di due anni; i lunghi capelli castani le incorniciavano un volto regolare valorizzato da due occhi espressivi e penetranti nel cui fondo si annidava un’inesplicabile espressione di tristezza che le dava un’aria concentrata e volitiva. L’aveva incontrata per caso sul ponte Carlo di Praga mentre ascoltava un gruppo di giovani musicisti di strada impegnati nell’esecuzioni di brani del repertorio classico; lei stessa era una musicista, suonava il violino in un’importante filarmonica della sua città ed amava passare le vacanze estive frequentando i festival musicali più accreditati: l’anno prima era stata al festival dei due mondi di Spoleto, quell’anno era diretta a Salisburgo e lì finì per recarsi, insieme a lei, anche Pier Paolo. I concerti frequentati con Babette gli avevano svelato un mondo sconosciuto, lei l’aveva quasi stregato con la sua passione, con le sue leggiadre lezioni d’ascolto gliel’aveva trasmessa.
Il ricordo di Babette lo distrasse, sentiva la musica come in un sottofondo, l’accompagnamento ovattato di un flashback in bianco e nero che dava ritmo e sensazioni al ricordare. Fu scosso dalle note risolute del finale, seguite da un applauso fragoroso. Le immagini, sopraffatte dal fragore dell’applauso, lo riportarono alla realtà.
Cercò di concentrarsi sul ritmo del Prélude iniziato con un pianissimo leggero, quasi sospeso, evocante sulle note del flauto e del clarinetto un senso di pace agreste, di tanto in tanto mosso dal timbro più vivace dell’orchestra che avvolge la melodia del flauto faunesco nelle dissolvenze danzanti delle ninfe; ne colse la tensione innovativa frammista ai richiami del passato, la specificità dei colori e dei timbri sonori, ma non fu in grado di persistere nel consueto atteggiamento di attenzione concentrata; il suo pensiero continuava a tornare sul volto di Babette e ogni strategia mentale per offuscarlo si rivelò inutile: il concerto divenne la colonna sonora dei suoi ricordi, di quegli anni in cui le esperienze costruiscono i gradini per affrontare la scalata della vita. E quanti sogni si costruiscono su quelle esperienze, quanti progetti e quante speranze. Il percorso era aperto a quei tempi, ricco di possibilità, o almeno così si pensava sulla spinta ottimistica dell'età. Quante delusioni anche… tra le altre, la fine della relazione con Babette, una relazione coltivata per un anno intero in attesa della prossima estate, incapace tuttavia di superare gli impedimenti della lontananza.
Le note, come evidenziatori che tracciano segni trasparenti sulle pagine, sottolineavano i suoi stati d’animo; o forse erano i suoi stati d’animo che si adattavano al fluire delle frasi musicali: i movimenti lenti e armoniosi gli sollecitavano pensieri di una dolcezza impotente che gli gravava sul cuore e si aggrovigliava nelle viscere trasformandosi in una tristezza sconfinata, dolorosa e insopportabile; i presti, i vivaci, gli allegri gli offrivano ricordi gioiosi, situazioni spensierate, a volte scoppiettanti sotto l’incalzare dei brani più mossi ed energici.
La seconda parte del concerto fu più benevola sotto il profilo delle sensazioni che si accumulavano nell’animo di Pier Paolo. Con il concerto di Ravel in sol maggiore per pianoforte e orchestra e con i due preludi per pianoforte di Gershwin irruppe nella sala una musica più vibrante, veloce e ritmica, che contrastava efficacemente la tristezza e lentamente riconciliò Pier Paolo con se stesso e con il suo passato, gli restituì una dimensione sostenibile dei ricordi e lo aiutò a superarli riportandolo nella sfera ordinaria del suo vivere.
All’appuntamento con l’ultimo brano che tanto aveva incuriosito Pier Paolo, accanto al pianista si materializzò la figura del giratore di spartiti. Il personaggio non è una figura inconsueta nei concerti in cui il pianoforte o l’organo eseguono lunghi brani che non consentono al musicista di staccare le mani dalla tastiera per girare le pagine dello spartito; il suo ruolo, tuttavia, non è semplice né gratificante. Egli, nonostante la sua presenza sul palco accanto al pianista, è un invisibile, oscurato dalla figura del musicista che attira su di sé gli sguardi e l’interesse degli spettatori; egli non deve interferire con l’esecuzione eppure deve conoscere bene la musica ed essere tanto abile da intervenire al momento opportuno; nell’eseguire il suo compito deve mettere da parte la sua personalità, dimostrare una grande umiltà e rassegnarsi all’anonimato, al termine dell’esecuzione si eclissa dietro le quinte per non rubare nemmeno uno spicchio di scena all’esecutore. Comparsa anonima e negletta, il giratore, che nessun programma di sala menziona, sherpa della musica che pure ama e coltiva con passione, magari nell’attesa di essere lui a calcare la scena, a godere del momento magico in cui, terminata l’esecuzione, il pubblico applaude, l’artista ringrazia con un inchino e gli applausi lo ripagano delle fatiche e delle rinunce imposte dalla tirannia dell’arte.
Non fu così quella sera.
Dopo i consueti applausi al pianista, all’orchestra e al direttore, fu chiamato sul palco anche l’autore dell’ultimo brano eseguito, in realtà l’autore della trascrizione per orchestra e pianoforte della composizione di Telonius Monk “Round Midnight”. Grande fu la sorpresa del pubblico e di Pier Paolo quando sul palco si presentò il “giratore di pagine”, la cui presenza suscitò una vera ovazione e un entusiasmo inconsueti.
All’appuntamento con l’ultimo brano che tanto aveva incuriosito Pier Paolo, accanto al pianista si materializzò la figura del giratore di spartiti. Il personaggio non è una figura inconsueta nei concerti in cui il pianoforte o l’organo eseguono lunghi brani che non consentono al musicista di staccare le mani dalla tastiera per girare le pagine dello spartito; il suo ruolo, tuttavia, non è semplice né gratificante. Egli, nonostante la sua presenza sul palco accanto al pianista, è un invisibile, oscurato dalla figura del musicista che attira su di sé gli sguardi e l’interesse degli spettatori; egli non deve interferire con l’esecuzione eppure deve conoscere bene la musica ed essere tanto abile da intervenire al momento opportuno; nell’eseguire il suo compito deve mettere da parte la sua personalità, dimostrare una grande umiltà e rassegnarsi all’anonimato, al termine dell’esecuzione si eclissa dietro le quinte per non rubare nemmeno uno spicchio di scena all’esecutore. Comparsa anonima e negletta, il giratore, che nessun programma di sala menziona, sherpa della musica che pure ama e coltiva con passione, magari nell’attesa di essere lui a calcare la scena, a godere del momento magico in cui, terminata l’esecuzione, il pubblico applaude, l’artista ringrazia con un inchino e gli applausi lo ripagano delle fatiche e delle rinunce imposte dalla tirannia dell’arte.
Non fu così quella sera.
Dopo i consueti applausi al pianista, all’orchestra e al direttore, fu chiamato sul palco anche l’autore dell’ultimo brano eseguito, in realtà l’autore della trascrizione per orchestra e pianoforte della composizione di Telonius Monk “Round Midnight”. Grande fu la sorpresa del pubblico e di Pier Paolo quando sul palco si presentò il “giratore di pagine”, la cui presenza suscitò una vera ovazione e un entusiasmo inconsueti.
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