domenica 31 dicembre 2023

Jamaica KINCAID - Autobiografia di mia madre

Recensione di A. ELIA

Che cosa può spingere un essere umano, una donna, a rinchiudersi in se stessa, a non rivelarsi agli altri e a trovare la forza di vivere e trascendere la propria condizione di esclusa, di emarginata, di reietta?

La prima risposta esposta nell'incipit del romanzo – «Mia madre è morta nel momento in cui nascevo, e così per tutta la mia vita non c’è mai stato nulla fra me e l’eternità; alle mie spalle soffiava sempre un vento nero e desolato» – è fin troppo facile e, a mio avviso, non decisiva.

Certo, il non aver conosciuto la mamma, morta di parto mentre la metteva al mondo, è un motivo di per sé sufficiente, a maggior ragione se insieme al corpo, al viso e alle cure della mamma mancano anche le cure e l’affetto del padre, proiettato nella

ricerca della sua personale realizzazione, impegnato nella conquista di una posizione sociale ed economica alla quale tutto subordina e sacrifica, anche la figlia.

L’altra risposta va ricercata altrove, nel mondo complesso delle relazioni di una realtà, i Caraibi, in cui la società è stratificata e corrotta, retaggio di una doppia sopraffazione subita dai nativi caribi, destinati all’estinzione, e dagli schiavi deportati dall’Africa ad opera dei conquistatori europei e inglesi in particolare.

Xuela, la protagonista che si racconta è un frutto, aspro ed ermeticamente chiuso nel suo duro involucro, di questa sopraffazione.

Figlia di un padre generato da una donna del “popolo africano” e da un “conquistatore” irlandese dai capelli rossi, il cui segno distintivo (i capelli rossi, appunto) era stato disseminato in tutte le isole caraibiche; e di una madre del “popolo caribo”, un popolo «estinto di fossili viventi in un precario equilibrio sull’orlo dell’eternità dove aspettava di essere inghiottito nel grande sbadiglio del nulla… che aveva perso nel modo più estremo, senza averne colpa, e perdendo non aveva semplicemente perso il diritto di essere se stesso, aveva perso se stesso»; Xuela, sintesi della stratificazione multietnica delle isole caraibiche, si è sempre considerata estranea e ostile al mondo in cui era nata.

In una delle ultime pagine del romanzo, afferma: «Mi sono rifiutata di appartenere a una razza, mi sono rifiutata di accettare una nazione. Volevo soltanto, e lo voglio tuttora, osservare coloro che non rifiutano. I crimini di queste identità, che conosco oggi più che mai, non ho il coraggio di addossarmeli». Nel confronto tra la sua condizione di esclusa e quella di chi la incontra e la tratta da paria per segnare la propria superiorità sociale e morale è lei, alla fine, a prevalere, sostenuta dalla sua forza interiore e dal confronto intimo con se stessa; gli altri non riescono a penetrarla e a condizionarla, sono vittime delle loro stesse ambizioni, della loro incapacità di conoscersi e di comprendere il passato.

La testimonianza di Xuela, silenziosa ma potente, si configura come una denuncia contro il “mondo capovolto” che ha visto fin dal primo momento in cui è nata alla vita, un mondo che vorrebbe raddrizzare, condizione unica e ineludibile per raggiungere la felicità.

«La felicità completa sarebbe capovolgere il passato. Un tale evento – perché sarebbe proprio questo, un evento – raddrizzerebbe il mio mondo, lo metterebbe in piedi; adesso è in piedi, ma per lungo tempo è stato capovolto».

L’autobiografia scritta da Jamaica Kincaid è contemporaneamente quella di Xuela, della madre mai conosciuta e dei popoli oppressi da cui l’autrice discende. È un’accusa nei confronti del popolo (dei popoli) conquistatore (la stessa accusa che in termini ancora più diretti ed espliciti ha elaborato nel racconto Un posto piccolo) sostenuta da una scrittura potente, diretta, esplicita e intransigente che non lascia scampo né margini interpretativi. La qualità e l’originalità della scrittura si avvale anche delle notevoli capacità della scrittrice di interpretare e fotografare stati d’animo e sentimenti, situazioni rapporti e luoghi, abilità che rende la narrazione realistica e vera, senza cadute di tono né concessioni all'autocommiserazione.

Il romanzo, un classico della letteratura moderna (J. Kincaid è stata candidata al premio Nobel oltre ad aver ricevuto numerosi riconoscimenti e premi), vale la pena di essere letto, oltre che per il suo valore letterario, perché offre numerosi spunti di riflessione sui danni, enormi e difficili da risarcire, causati dal colonialismo e dal razzismo del passato; danni che si sommano a quelli causati dal contemporaneo colonialismo economico e dal razzismo dei nostri giorni, subdoli e misconosciuti e per questo ancora più pericolosi e difficili da superare.


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