Premessa. Il libro di D. Albera su Lampedusa è un viaggio nel tempo, un saggio di storia mediterranea, come indicato nel sottotitolo, ma è anche altro. È anche una riflessione, una denuncia sul presente di cui sono piene le cronache di questo nostro tempo infelice e incerto. Un tempo che sembra aver smarrito i sentimenti di umanità e di accoglienza, caratteri connaturati alla storia dell’isola e ancora oggi patrimonio dei suoi abitanti, seppure nelle difficoltà imposte da una gestione dell’accoglienza volutamente precaria e ostativa da parte della politica e della burocrazia nazionali ed europee.
L’Autore, oltre a padroneggiare con competenza la Storia e i documenti che ne ricostruiscono gli eventi, si avvale di una scrittura che in molti punti – specialmente quando il suo sguardo si sofferma sugli ambienti o quando raccoglie ed esprime i sentimenti suscitati dalle tante tragedie chequest’isola ha impresso nella sua memoria di terra, di mare e di vento – si fa narrazione letteraria, poetica, un concentrato di espressioni cristalline e penetranti, leggere e profonde ad un tempo, che ben si rapportano alla prosa e alla poesia di scrittori e poeti che in passato hanno incontrato quest’isola che “è come un ombelico segreto del Mediterraneo”.
Altrettanto elegante e coinvolgente è la cronaca delle contraddizioni che convivono nell’isola fianco a fianco e sono visibili, “nei segni disseminati qua e là dal loro furtivo passaggio” – in cui “loro” sono la massa senza volto dei migranti che convivono nello stesso limitato spazio dell’isola con le nutrite schiere di turisti, pur senza quasi mai incontrarsi – agli occhi di chi in quelle contraddizioni vuole guardare per capire: villeggianti, opinione pubblica e media innanzitutto.
Un breve brano evidenzia drammaticamente il cuore di queste contraddizioni:
“Si può arrivare a Lampedusa dal Sud o dal
Nord. Ed è questo che fa tutta la differenza.
Chi viene dal Sud non ha avuto altra scelta:
per raggiungere l’Italia ha dovuto affrontare il mare. Quando sbarca, è sempre
un sopravvissuto. Sulla stessa rotta, altri compagni sono annegati: rimarranno
come altrettanti spettri invisibili, corpi senza tomba e senza nome,
dimenticati per sempre. … Chi viene dal sud e dal mare porta con sé il peso di
interminabili attese… cerchi di fatica cingono i suoi occhi…
Chi viene dal Nord ha diverse opzioni per
raggiungere Lampedusa. E quasi sempre sceglie la via del cielo … Chi viene dal
nord e dal cielo ha viaggiato al massimo qualche ora, seduto comodamente in
poltrona… Chi viene dal Nord e dal cielo ha le tasche piene dei sogni di tanti
vacanzieri. Non vede l’ora di rilassarsi e distendersi…
Lampedusa è allo stesso tempo una prigione a
cielo aperto e un giardino dell’Eden”.
La storia. La ricognizione storica
di D. Albera individua le fasi dell’evoluzione sociologica e ambientale di
un’isola collocata al centro del mare
Mediterraneo, sostanzialmente equidistante sia dal continente europeo sia da
quello africano.
Dell’antichità
di Lampedusa si hanno poche informazioni e testimonianze. Sappiamo che l’isola
era abitata e frequentata, un’ancora di salvezza per imbarcazioni in
difficoltà, un punto di riposo e di ristoro nelle traversate, poco più: «…uno scalo per tutti coloro che
attraversano il Mediterraneo centrale… una terra di passaggio: un luogo di
sosta e di riposo al crocevia delle rotte che solcano il Mare Interno»
pacificato dai Romani.
La situazione si modifica nel Medioevo, di pari passo con l’espansione araba sulla costa africana, in Spagna e in Sicilia. Le turbolenze che ne seguirono, le Crociate e la pirateria contribuiranno ad assegnare a Lampedusa (grazie alla posizione di “ombelico del Mediterraneo” e al fatto di essere, all’epoca, deserta ma ricca di selvaggina, di fonti d’acqua e di vegetazione) il ruolo di luogo-frontiera, un luogo-franco, una zona di contatto dove le violenze e le contrapposizioni della guerra sono bandite: la configurano, in definitiva, come zona neutrale.
Questa
peculiarità dell’isola, descritta per la prima volta in un testo composto da un
nobile francese, Jean de Joinville, che ne “La vie de Saint Louis”
testimonia lo sbarco a Lampedusa di Luigi IX re di Francia di ritorno dalla
Terra Santa nel 1254 e ne descrive un interessante e inedito particolare: una
grotta, una specie di Santuario diviso in due ambienti separati ma contigui, in
cui si veneravano una statua lignea della Vergine Maria e i resti umani di un
Santone musulmano (un Marabutto). Interessanti e inedite sono anche le relazioni
che i frequentatori dell’isola intrattengono con il Santuario, luogo di protezione
(materiale e spirituale) che «è all’origine di una particolare forma di
scambio e di aiuto reciproco tra nemici, in nome di una solidarietà umana che
trascende le barriere politiche e culturali».
Alla
Vergine o al Marabutto i frequentatori del Santuario chiedono protezione contro
i pericoli del mare e in cambio offrono beni o denaro (ognuno secondo le
proprie possibilità); in caso di bisogno possono prelevare quanto strettamente
necessario (vettovaglie e attrezzi).
La
regola è spontaneamente rispettata in virtù della convinzione che in caso
contrario sarebbe impossibile lasciare l’isola in quanto essa è «un luogo custodito da potenze sovrumane,
in grado di scatenare le forze arcaiche degli elementi naturali contro chi osa
violare i patti che regolano la pace provvisoria che regna sull’isola».
La
poetica della frontiera nell’Orlando furioso. La notorietà di
Lampedusa data all’incirca dalla metà del secolo XVI.
Volàno della notorietà diffusa a livello
europeo fu la pubblicazione de L’Orlando furioso di Ludovico Ariosto che
nell’arcipelago della Pelagie ambienta la conclusione del Poema in cui si “dispiega
una poetica della frontiera nel Mediterraneo” e Lipadusa “diventa
una sorta di incarnazione di questa poetica” che la individua come “un
luogo di tregua pacifica, di incontro e di conversione”. Il
destino di Lampedusa, tuttavia, “non sarà solo quello di incarnare un topos
letterario, esso si rivelerà molto più ricco e paradossale”. Il suo destino
sarà quello di configurarsi nel tempo come una zona di contatto che
intercetta e protegge il movimento che lungo la frontiera coinvolgerà figure
diverse: marinai, naufraghi e schiavi; pirati e avventurieri; soldati, eremiti e
religiosi. La
particolare situazione di Lampedusa come frontiera deserta, aperta e non
armata, con un santuario frequentato anche dai Musulmani, la rende un caso notevole, menzionato in molte
opere pie, un luogo emblematico dell’aiuto reciproco e della tolleranza nel
Mediterraneo. Tutto ciò avvia un
processo di riconoscimento che si sviluppa progressivamente dal XVII alla fine
del XVIII secolo.
Nel 1610 W. Shakespeare
sembra essersi ispirato a Lampedusa per l’ambientazione del suo dramma La
tempesta, in un’isola deserta, incantata e sperduta.
L’interesse degli
illuministi. Un particolare
interesse in quanto zona di contatto, «simbolo di
apertura religiosa, questo luogo incantato situato alla frontiera tra il mondo
cristiano e quello musulmano, stimolerà l’immaginazione di alcuni» intellettuali
illuministi che ne scrivono nelle loro opere. Così la introduce D.
Diderot ne "Il figlio naturale” del 1757, una sorta di
romanzo sperimentale che è il manifesto della sua teoria del teatro completata
l’anno successivo con la pubblicazione del “Padre di famiglia”: «Ah amici, se
andassimo una volta a fondare a Lampedusa, lontano dalla terra, in mezzo al
mare, un piccolo popolo felice!»
Se ne interessano e ne
parlano anche J.J. Rousseau ed economisti come il fisiocratico marchese
di Mirabeau e l’abate Ferdinando Galiani, che vagheggiano di Lampedusa come di
un luogo ideale in cui avviare esperimenti sociali e culturali inediti.
Nel
corso del XIX secolo, pacificato il bacino del Mediterraneo, il mito di
Lampedusa si assopisce e cambia anche il suo ruolo all’interno dell’area
geografica che ne aveva decretato l’unicità e la peculiarità, fino a segnare “una
rottura con tutta la storia precedente”, a non essere più “quel luogo
liminale tra mondo cristiano e musulmano che aveva fatto parlare e scrivere
tanto”.
Non
essendo più un luogo-frontiera, Lampedusa diventa un luogo-confino.
Sotto il dominio del regno delle due Sicilie, dopo gli infruttuosi tentativi
privati operati nel secolo precedente, si cerca di colonizzarla e di sfruttarne
le risorse naturali, a cominciare dalla pesca. Con esiti disastrosi, bisogna
dire, che la condannano alla desertificazione.
Lampedusa
Porta d’Europa. “Lampedusa
acquisisce una nuova centralità con la rinascita della frontiera Nord-Sud nella
seconda metà del XX secolo, e in modo sempre più accentuato nel corso degli
ultimi decenni”.
Essa,
in questo lasso di tempo è diventata un’apprezzata e ricercata meta turistica
e, per effetto delle norme che impongono l’obbligo del visto per l’ingresso nei
Paesi dell’U.E ai cittadini extracomunitari, anche “un importante anello di
congiunzione delle rotte migratorie globali”. Nell’immaginario
collettivo assume il ruolo, figurato e reale, di Porta d’Europa, dal
nome della scultura, opera dell’artista siciliano Mimmo Paladino, collocata all’estremo
sud dell’isola. Un appellativo, ci ricorda l’Autore citando George Simmel, che
è un simbolo ambiguo:«[Essa] può aprirsi, accogliere e lasciar
passare. Ma stabilisce sempre una direzione, separa un interno da un esterno,
dissocia la nostra intimità familiare dalla generica e inquietante estraneità
degli altri…esiste forse per sottolineare l’assurdità di una divisione che si
infila in mezzo al nulla».
In
questo quadro, per molti versi drammatico, «l’isola diventa l’estremo, ambiguo limite
dell’interno europeo, porta perplessa e disorientata, socchiusa sull’ignoto di
un mondo assai più vasto».
Per
concludere. Nel
capitolo finale – un testo vibrante, emozionato e solidale che racconta la
drammatica situazione in cui a Lampedusa sono esplicate le operazioni di
accoglienza dei migranti – Albera introduce una nota di speranza.
Le
suggestioni vissute in diretta e le osservazioni registrate durante i
soggiorni a Lampedusa come studioso e soprattutto come volontario direttamente
impegnato nell’accoglienza dei migranti sfiniti dalla traversata, gli fanno
ritenere che nel magma incerto delle evidenti contraddizioni che
l’attraversano, a Lampedusa “emergono i semi di nuove arti della zona di
contatto” e ritiene che “attraverso un’elaborazione culturale
collettiva, proprio come nel XVI secolo, Lampedusa potrebbe di nuovo
diventare un’isola aperta”.
Oggi,
intanto, è chiamata a “testimoniare i terribili avvenimenti che turbano le
acque distese tra la Sicilia e l’Africa settentrionale, a denunciare la
barbarie dell’Europa civilizzata”, a sostenere e valorizzare l’impegno di
tante persone, autoctone e non, che cercano di trasformarla in un luogo di ri-creazione,
di rinascita per i tanti migranti che vi approdano, che cercano di far
emergere, dal basso, una nuova poetica della frontiera.
Di
fronte alla Porta d’Europa Albera ha scritto pagine molto belle,
intense, emozionate ed emozionanti. Per concludere ne trascrivo un brano che
riporta le tristi riflessioni di una notte come tante in cui i migranti
sbarcati sul molo Favaloro si avviano verso l’hotspot per iniziare una
nuova fase del loro peregrinare.
«Vorrei che il brusio di questa notte, il
parlottare sommesso dei tanti che si avviano verso un’inedita tappa del loro
vagabondare, si trasformasse di botto in un suono inaudito. Che in un attimo si
risvegliassero le urla di strazio e di disperazione, i gemiti dei torturati,
gli ansimi delle agonie, insomma tutte le tracce depositate nel corso degli
anni sui percorsi dei migranti che bussano alle nostre porte. Ci vorrebbe un
vento forte, per sollevare i frammenti del dolore che giacciono sulla sabbia,
sui pavimenti delle prigioni, sulle barche alla deriva; per amalgamare
sterminati atomi di sofferenza e convogliarli fin qui.
Ne nascerebbe un boato immenso. Azzittirebbe
di colpo le orchestrine che adesso sciorinano il loro repertorio spensierato
lungo le vie del paese.
Poi proseguirebbe, come un’immane ondata
sonora rigurgitata dalla bocca di questo molo. Acquisterebbe la forza fragorosa
di cento tuoni. Assomiglierebbe al ruggito di migliaia di leoni. Si
propagherebbe ovunque: muggito assordante, grido lancinante che risale,
inesorabile, verso Nord. Senza più fermarsi, senza deviare. Un rombo smisurato
si infilerebbe nelle case dei cittadini europei, come uno scirocco ostinato, a
turbare il sonno tranquillo degli ingiusti: di tutti quegli individui per bene –
insipienti, ignoranti, ignavi – elettori di governi che non solo permettono
questi patimenti, ma ne sono a tutti gli effetti la causa principale».
Antonio ELIA
* Dionigi
Albera. Laureato in Filosofia all’Università di Torino con una tesi in Antropologia
culturale, nel 1995 ha ottenuto un dottorato presso l’Università di Aix-en-Provence.
Dal
1996 è ricercatore presso il Centre National de la Recherche
Scientifique (CNRS)
e nel 2007 è stato nominato direttore di
ricerca. Dal 2006 dirige l’Institut
d’Ethnologie Méditerranéenne di Aix-en-Provence. Ha
al suo attivo numerose pubblicazioni scientifiche che esplorano vari
temi in
ambito europeo e mediterraneo, come i fenomeni migratori, la parentela,
l’organizzazione domestica, le forme di commistione religiosa tra le
religioni
monoteiste.
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