venerdì 11 giugno 2021

Un libro al mese: Recensione di Antonio ELIA

 Don DeLillo - Underworld

Una fatica. Leggere Underworld di Don DeLillo è stata una fatica. Non una fatica fisica per la lunghezza del testo, che anzi c’è godimento spirituale a leggerlo, momenti di delicata e leggera ironia da assorbire fino in fondo, da centellinare come un bicchiere di buon vino; un’impegnativa e salutare fatica emotiva che ti incatena alla riflessione sui temi esistenziali della seconda metà del novecento: l’incubo della bomba atomica e della guerra nucleare, lo smaltimento dei rifiuti (domestici e nucleari), la guerra fredda, lo squallore morale dell’America dominata da J. Edgar Hoover, la questione razziale, la guerra nel Vietnam, l’AIDS e la droga, i blackout e il killer dell’autostrada, il consumismo e l’era digitale. Un romanzo che riassume lo spirito del tempo, dominato dalla paura, da una serie di paure accumulate e stratificate nel tempo senza trovare soluzione, con le quali convivere e adattarsi fino a scoprire nella loro persistenza un significato storico ed estetico da offrire

(come nel caso dei rifiuti) allo sguardo ammirato e incredulo dei turisti del futuro, delle scolaresche e delle famiglie in gita domenicale: Il panorama del futuro. L'unico panorama che resterà da guardare. Più i rifiuti saranno tossici, più aumenterà il livello di sforzo e di spesa che i turisti saranno disposti a tollerare per visitare il sito;

o da rimpiangere, come per la fine della guerra fredda, perché la guerra fredda È l'unico elemento di stabilità. È onesta, è affidabile. Perché quando la tensione e la rivalità finiscono, allora sì che comincia il vero incubo. …La guerra fredda è sua amica. Per lei è necessario che rimanga predominante;
Il cui epilogo (dal titolo anch’esso epifanico – Das Kapital – come quello del prologo) è spiazzante, suggerisce e paventa una condizione dell’umanità alienata, dominata da un nuovo moloch, il Capitale, appunto, che sottratto agli impedimenti che ne avevano frenato il dominio, ha esteso il suo controllo su tutti gli aspetti della vita e della morte, compreso il ciberspazio
dove tutto è interconnesso, dove semplici click ti conducono per mano alla scoperta di ogni tipo di conoscenza. E in questa alienazione non puoi sopprimere la realtà pulsante che ti circonda: gli arredi del tuo studio, le voci e i giochi dei ragazzini fuori dalla finestra, nel prato, che ti trasmettono un messaggio e un bisogno di “Pace”,
e l’aldilà, lasciando gli individui, nudi e indifesi con il loro inascoltato desiderio di Pace.
La parola che, isolata come un suggello, chiude il romanzo.

L’intreccio narrativo, complesso e sofisticato, liberamente a spasso – avanti e indietro – sulla linea del tempo, ruota intorno alla vita di Nick Shay, l’ultimo proprietario della palla da baseball del fuori campo con cui terminò la partita del 3 ottobre 1951 tra le squadre newyorkesi dei Dodgers e dei Giants, vinta da questi ultimi per la delusione del protagonista-narratore, all’epoca un adolescente, tifoso dei Dodgers sconfitti, che aveva ascoltato la radiocronaca dell’evento appollaiato sul tetto del palazzo in cui abitava, nel Bronx.
Il prologo del romanzo è il resoconto della partita, ma non a caso il titolo – Il trionfo della morte, dal famoso quadro di Pieter Bruegel il Vecchio – lascia intravedere sviluppi tutt’affatto differenti, introdotti dalla notizia del secondo esperimento nucleare sovietico e della presenza sugli spalti del capo dell’FBI: J. Edgar Hoover che, nell'interminabile mescolanza fluviale di paranoia e controllo, teneva l’America stretta in una morsa di paura e di soggezione.

La vita di Nick Shay, documentata in una lunga serie di capitoli e di frammenti pubblici e privati, scorre all’incontrario: dalla primavera-estate del 1992 quando Nick è un affermato dirigente di un’azienda del settore trattamento rifiuti, fino agli inizi degli anni Cinquanta, alla svolta drammatica nella sua coscienza di diciassettenne confuso dalla irrisolta scomparsa del padre quando era ancora un ragazzino.
All’interno di questo percorso temporale a ritroso, la storia di Nick s’intreccia con quelle degli altri, numerosi personaggi che direttamente o indirettamente l’accompagnano. Alcuni di essi sono marginali, ma ugualmente funzionali nell’economia del racconto perché portatori di punti di vista, testimoni o protagonisti degli eventi epocali che danno senso e profondità alla narrazione.
Fare una sintesi del romanzo è praticamente impossibile: il lettore si trova di fronte a una specie di puzzle letterario le cui tessere non solo non sono facili da collocare, come in ogni puzzle, ma neanche combaciano perfettamente e a volte lasciano spazi vuoti. A fine lettura, dopo quasi novecento pagine, è possibile ricostruire una trama che nelle sue linee essenziali presenta questo sviluppo:

Nick Shay, primogenito di una coppia italo-irlandese, vive un’infanzia tormentata dall’assenza del padre, la cui sparizione è causa di un disagio esistenziale che in età adolescenziale si manifesta nell’abbandono della scuola e nella lenta discesa lungo una pericolosa china deviante. A 17 anni, tra l’autunno del 1951 (l’anno dell’epocale partita di baseball che, più di quarant'anni dopo faceva dire alla gente: Dov'eri tu quando Thomson ha battuto il fuoricampo?) e l’estate del 1952, si compie il destino di Nick, condannato per l’omicidio di George Manza, un conoscente col quale giocava a biliardo e parlava.
In un certo senso quel tragico evento fu la sua salvezza e l’occasione per intraprendere un virtuoso percorso di crescita nel quale ebbero un importante ruolo la psicologa del carcere minorile, padre Paulus (il gesuita che lo seguiva nel collegio a cui era stato affidato dopo appena sei mesi di reclusione) che gli aveva insegnato a esaminare le cose alla ricerca di un secondo significato, di collegamenti più profondi, infine la sua volontà di redimersi e di cominciare una nuova esperienza.
La ricostruzione della vita adulta di Nick inizia dal 1992 con l’incontro con Klara Sax (o Sachs), sua occasionale amante nel lontano 1952, e va indietro fino ai già ricordati anni Cinquanta. In questo percorso, ogni riferimento alle persone che ne hanno condiviso il tragitto rappresenta un punto di svolta che apre nuove strade e, soprattutto, rappresenta l’occasione per delineare le coordinate di un tema esistenziale o di un aspetto della complessa realtà del tempo.
Al filone principale appena descritto se ne intreccia un secondo che insegue i passaggi di proprietà della famosa palla del fuoricampo dalle mani di Cotter Martin, il ragazzo che sugli spalti dello stadio l’aveva contesa a numerosi altri spettatori, fino all’acquisto per ben 34.500 dollari da parte di Nick Shay, un prezzo esorbitante rispetto a quei miseri 32 dollari e spiccioli incassati da Manx Martin, il padre di Cotter che furtivamente l’aveva sottratta al figlio.
L’intreccio narrativo qui appena abbozzato ha proposto Underworld di Don DeLillo come uno dei romanzi che meglio hanno raccontato l’America della seconda metà del Novecento. Forse il migliore, anche se il Premio Pulitzer per la narrativa del 1998 è stato assegnato al romanzo di Philip Roth, Pastorale americana, pubblicato, come Underworld, nel 1997.
Detto preliminarmente che anche il romanzo di Roth è un capolavoro che ben rappresenta uno spaccato della società americana del secondo novecento, confesso di preferire Underworld: per l’acuta e ampia prospezione della complicata realtà del tempo narrato, per l’ampiezza e la profondità del suo sguardo, e per la scrittura di DeLillo i cui motivi che cercherò di esplicitare nel prossimo paragrafo.

Il romanzo di DeLillo presenta una struttura frammentata che richiede la partecipazione del lettore per ricomporne l’azione. Lo si nota soprattutto nei sette capitoli della Parte quinta, suddivisi in brevi frammenti scelti, datati lungo l’intero arco degli anni Cinquanta e Sessanta. In molti altri capitoli il flusso narrativo, pur nella sostanziale continuità di un discorso unitario, è interrotto di continuo da pensieri, ricordi, considerazioni, esperienze, digressioni che rinviano al passato o anticipano il futuro, flash successivamente ripresi e sviluppati in altri paragrafi e capitoli, integrando quell’idea di puzzle di cui parlavo in precedenza.
Si prendano ad esempio i capitoli secondo e sesto della parte prima in cui Nick in prima persona racconta se stesso nel 1992.
La narrazione è spesso condotta con la tecnica filmica derivata dall’esperienza di sceneggiatore ed esplicitata nel brano seguente (Parte sesta, capitolo primo):
Erano scene da film, queste, dal tono lievemente ellittico, con le riprese un po' improvvisate, sfasate dall'azione accidentale. Prima, la scena muta nel padiglione, dove i due personaggi si adocchiano in mezzo ai camion. Poi l'incontro sul bordo della piscina con primi piani e pause, i due un po' distaccati dal proprio dialogo, e un senso pervasivo di languore mattutino nel classico canto d'uccelli, nel movimento ritmico di uomini armati di tosasiepi e nel baluginio perfettamente turchese sullo sfondo. Il campo lungo insinua una certa compressione, un'ansia in agguato che minaccia non solo il momento, ma anche il giorno, la settimana e l'epoca. E adesso la scena nella stanza, la mia stanza, dove lei si tolse i jeans…
In alcuni casi la telecamera coglie momenti significativi in sequenza, si sofferma sui particolari e indugia per farli risaltare, ne dilata i significati approfondendone le dinamiche, le implicazioni, le connessioni tra i soggetti, gli oggetti e i tempi, in un resoconto preciso e minuzioso che ti fa vivere l’evento in diretta, come se fossi tu stesso a guardarlo e a sottolinearne i passaggi. In altri la telecamera si sposta in continuazione, come se l’obiettivo si posasse nervosamente ora qui ora là per poi ritornare e allontanarsi e cercare altri oggetti o azioni da osservare. Un’abilità superba.
Esemplare il brano dell’omicidio perpetrato dal killer della Texas Highway nel capitolo primo della seconda parte: un unico piano-sequenza in cui una videocamera manovrata da una bambina, dall’interno di un’automobile che corre sull’autostrada, registra l’omicidio di un uomo alla guida di un’altra auto sulla corsia vicina, a sua volta affiancata dall’auto dell’omicida, trascritto con maestria sulla pagina in termini così precisi e dettagliati da dare l’impressione di assistervi in diretta.
Il testo frammentato è spesso integrato da ripetizioni che danno l’idea di promemoria, di sottolineature per richiamare l’attenzione del lettore, per orientarlo su aspetti importanti del pensiero, della psicologia, del ricordo, delle ossessioni, del comportamento dei personaggi. Molte ripetizioni sono brevi e incisive, adattate con qualche piccola modifica:
L'accompagnavo e andavo a riprenderla in macchina, assicurandomi che avesse gli spiccioli per l'offerta / Impacchettiamo i giornali ma non li leghiamo con lo spago / Era l'estate dei tetti / Le cose le sfuggivano di mano / Moriremo tutti quanti / Amatemi incondizionatamente altrimenti muoio / Sto preparando il sugo / Dicevano, Chi sta meglio di me? / Lei faceva il suo lavoro di ricamo, a cottimo, lavorando in nero / Il modo in cui aveva detto no quando gli aveva chiesto se l'arma era carica / Baci a tutti / Mannaggia l'America / ecc.
contribuiscono a creare una tensione narrativa, un’attesa, un’atmosfera e perfino un ritmo.
Il ritmo della narrazione è un aspetto interessante della scrittura di DeLillo, perseguito con artifici di diverso tipo e tenore. Penso, ad esempio, alle frasi brevi, scattanti; ai paragrafi conclusi da immagini evocative o ad effetto; alla rapsodica successioni di brevi brani discontinui per salti temporali, personaggi, situazioni ecc. Artifici narrativi in apparenza incoerenti che, al contrario, affrescano la narrazione con maestria, l’arricchiscono e la impreziosiscono con un’infinità di informazioni e indizi posti come segnali direzionali.

La scrittura di DeLillo, sempre elegante e controllata, utilizza differenti registri e modalità espressive. A volte una prosa più sostenuta:
Phoenix andava meglio, per me, tutto sommato. Avevo bisogno di una vita privata. Ma come si fa ad avere una vita privata in un posto in cui tutti i sentimenti sono allo scoperto, dove la tensione che hai nel cuore, quella cosa che sei riuscito a relegare in piccole stanze chiuse, è esposta alla luce lattiginosa ed è così vasta e radicata che non si riesce a distinguerla dal paesaggio e dal cielo? //
Io credo di sentire la mancanza di Marian negli oggetti alle pareti e sugli scaffali. C'è qualcosa di malinconico nelle cose che abbiamo raccolto e che possediamo, negli effetti domestici, c'è qualcosa nella parola stessa, effetti, il cassettone laccato nella nicchia, che emana una specie di tristezza - i quadri e i tessuti alle pareti e gli oggetti d'arte e i preziosi - e io provo un senso di solitudine, di perdita, ancora più grande e strano se l'oggetto è relativamente raro ed è l'ora dopo il tramonto in un silenzio che sembra eterno.

perfino ricercata e raffinata:
Suor Edgar l'ha vista parecchie volte da quella finestra, quasi sempre in corsa. Corre sempre. Correre è la sua bellezza e la sua salvezza, la sua melodiosa speranza, un merito speciale, una purificazione, il movimento altalenante e leggero di qualcosa di divino che soffia nel mondo. //
Klara non conosceva il West e non l'aveva mai sorvolato con un cielo così limpido. Sembrava giovane e intatto, aveva l'aspetto alieno dei mondi che non abbiamo mai veduto, non era nostro visto dall'alto, era troppo fluido, nuovo e alieno - non l'avevamo ancora colonizzato.

Altre volte, nei dialoghi o in specifiche situazioni d’ambiente, utilizza espressioni gergali, modi di dire tipici che restituiscono la dimensione e l’atmosfera descritta, gli stati d’animo e i caratteri dei personaggi.
Quando è necessario, e in questo lavoro vi ricorre spesso, il registro è quello tecnico-scientifico usato con padronanza e senza eccessi.
DeLillo alterna con naturalezza la terza alla prima persona: ricorre al narratore terzo quando parla dei personaggi diversi del protagonista, concede a Nick Shay la prima persona quando ne racconta la vita. Efficace ed espressivo è il ricorso ai dialoghi: lunghi, tesi e incalzanti, carichi di tensione, inframmezzati da pennellate d’atmosfera, da descrizioni d’ambiente o dalle intime riflessioni dei dialoganti. In definitiva, una scrittura moderna, resa vivace dall’alternanza di frasi concise, non elementari come in tanta letteratura contemporanea, e di altre più articolate e complesse che danno sfogo a riflessioni o descrizioni più ampie ed ariose.

In conclusione, ritengo Underworld il romanzo meglio riuscito di Don DeLillo, un capolavoro della letteratura contemporanea che merita di essere letto, che conserverà anche in futuro un posto di prestigio nella storia della letteratura mondiale.



 


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