László Krasznahorkai - Melancolia della resistenza
L’azione, ambientata in una piccola città ungherese incuneata in una valle chiusa dei Carpazi, si apre su due “condizioni straordinarie”, concomitanti e connesse, che ne orientano gli sviluppi: in città, al seguito di un circo le cui uniche attrazioni sono una balena imbalsamata e un “pigolante aborto di natura”, arriva una folla di soggetti poco raccomandabili che incutono paura.Il contesto storico di riferimento è il periodo di transizione e d’incertezza della Perestroika che acuisce «la lotta tra ciò che resiste e ciò che tenta di sconfiggere la resistenza», una lotta vana, sostiene il signor Eszter – l’uomo più influente della città, direttore del locale conservatorio e illustre musicologo, ritiratosi dal mondo per dedicarsi alla cura deliziosamente inestimabile dell’oblio – il quale «aveva capito cosa muove il tutto, aveva compreso che la necessità è la spinta dell’esistenza». All’interno di tale cornice – con scrittura fluviale e agglutinante che toglie il respiro e immerge il lettore in atmosfere a volte stranianti – l’Autore rivisita e approfondisce le tematiche che lo avevano impegnato in Satantango2, il primo romanzo dell’ideale quadrilogia della sconfitta di cui Melancolia della resistenza è il secondo.
L’assenza di prospettive, la fatalistica attesa, l’inazione che in “Satantango” paralizzano i superstiti dello stabilimento (la comune agricola in sfacelo da cui non hanno la forza di allontanarsi), in “Melancolia della resistenza” sembrano avere sviluppi contrastanti: da un lato l’apparente, sbandierato ma strumentale, «desiderio di rinnovamento e ringiovanimento generale, avvertibile in tutto il paese»; dall’altro, come per contrasto, una concreta volontà distruttiva sorretta da pratiche nichilistiche e catartiche. Interpreti dei due contrastanti intendimenti sono, rispettivamente: i soliti tartufi e i gattopardi identificati nella figura della signora Eszter; la moltitudine alienata, incolta e aggressiva manipolata dal Principe, un’attrazione circense, il fenomeno da baraccone dalla personalità magnetica, che sollecita la distruzione perché «solo nella rovina tutto è fatto fino in fondo». Si tratta di opzioni ambedue inconsistenti e velleitarie, carenti di progettualità, che non favoriscono l’affermarsi di nuove opportunità. Di fatto si rivelano funzionali l’una all’altra e cooperano alla disgregazione dell’«impero di un tempo… dissolto dalla forza infinita di un caos che si annidava tra i cristalli dell’ordine».
Ma se in Satantango il tema dell’attesa si era subito colorato di positive, seppur mal riposte, speranze di rinascita, qui l’attesa è fosca e negativa, fatta di presagi sinistri che si accumulano nel tempo e sembrano non lasciare scampo né possibilità di resistenza o salvezza. L’oscura sensazione è acuita dall’arrivo del circo, «con tutte le strane dicerie provenienti dai villaggi vicini che si portava dietro», e con il suo seguito di accompagnatori poco raccomandabili, tanto da diffondere uno stato d’animo collettivo da «città in stato d’assedio dove le persone ritengono ormai vana ogni resistenza». Non a torto, come si vedrà, perché la città, la notte successiva all’arrivo del circo, subisce davvero la violenza cieca e distruttrice della turba di adepti del Principe, i quali, come automi in preda ad una meccanica volontà di annientamento ne eseguono il farneticante credo nichilista.
In realtà tale esito poteva essere evitato. Non lo fu per le sfrenate ambizioni di potere della signora Eszter – «dal passato scandaloso, la dissolutezza dei costumi, e una situazione familiare attuale molto confusa, nota anche per la sua sfacciata arroganza» – moglie del musicologo ritiratosi dalla vita attiva «per dedicarsi esclusivamente alla gioia inesprimibile della rinuncia, a nient’altro», di fatto da esso ripudiata.
A fronte delle forze catastrofiche, operative o ipocritamente intriganti, stanno gli altri due personaggi principali: il signor Eszter e János Valuska, soggetti atipici e fuori contesto, portatori di quella “melancolia della resistenza” espressa nella contemplazione e nella ricerca di armonie, differenti ma pur convergenti, che trascendono le umane faccende e resistono anche «in un mondo totalmente sprovvisto di ragione organizzatrice, privo di ordine se non quello del caos».
Ritorna anche in quest’opera il tema del caos che governa l’universo. Tale convincimento è sviluppato con rigore dal signor Eszter fino alle sue estreme conseguenze. Egli sostiene che «il mondo non si disgregava, non stava cadendo in rovina, poiché a modo suo, totalmente sprovvisto di ragione organizzatrice, privo di ordine se non quello del caos, era eternamente perfetto, quindi bombardarlo ogni giorno con le armi pesanti della ragione … non era solo faticoso», ma implicava anche la necessità di rinunciare al «pensiero libero e lucido in quanto fatale sciocchezza» e di ripudiare la ragione.
Se si rinuncia anche alla ragione e al pensiero – vien da chiedersi – quale senso ha la vita umana?
Eszter risponde che, infatti, non ha alcun senso e che non c’è alcuna differenza tra la vita di qualsiasi altro ente e quella degli esseri umani che non sono «che miseri soggetti di un insignificante fallimento in questo affascinante creato».
Le armonie di Werckmeister
János, considerato un puro idiota dagli abitanti della città e un fannullone scriteriato dalla madre, la signora Pflaum, che lo aveva cacciato di casa, vive con la testa per aria, osserva il cielo e gli astri e si riempie della magnificenza del cosmo nelle sue scorribande notturne per le strade cittadine. Bellissime le pagine dedicate alla dimostrazione della rotazione degli astri fatta in una kocsma a beneficio degli avvinazzati avventori. Egli, ammiratore devoto del signor Eszter e suo utilissimo factotum, seppure «vagabondo, apparentemente svitato, prigioniero di quella galassia trasparente, testimoniava con la sua purezza e la sua toccante generosità umana l’esistenza di una presenza angelica tra le forze distruttrici della decadenza». Tale lo considera il suo protettore e tale si dimostra nel suo ingenuo e fiducioso attraversamento della giornata dell’ira nichilista dell’orda distruttrice e famelica che mette a soqquadro la città. Nelle vicende di quella notte in cui resta invischiato suo malgrado, János è testimone diretto delle distruzioni causate dall’orda e dalla lettura delle pagine scritte da un rivoltoso in un notturno momento di riposo, inorridito per la crudeltà osservata, capisce, uscendo da una sorta di letargico annebbiamento che lo aveva avvolto fino ad allora, che in quell’orda «non c’era, e non c’era mai stato, nulla di soprannaturale, loro e il loro “malvagio” Principe “dotato di poteri magnetici” avevano perso ogni carattere “demoniaco”, all’improvviso il suo sguardo si era per sempre liberato dalle cateratte che l’avevano reso miope, e dall’illusione vergognosamente incantevole che, confinandolo nel meritato ruolo di mezzo scemo, “gli aveva nascosto il vero volto delle cose”». Tale consapevolezza lo travolge e ne decide l’infelice destino.
Il signor Eszter è atipico e fuori contesto per motivi del tutto opposti alla condizione di János. Egli è un intellettuale che, disgustato dal mondo, per non doverne sopportare la volgarità si era volontariamente recluso tra le mura domestiche «perché la vita all’esterno si era trasformata in un panorama di straziante desolazione, [e per] distaccarsi dal pruriginoso bisogno di intromettersi, perché il nobile significato dell’azione era minato da una totale assenza di ragione». Il tempo dilatato del suo ritiro dal mondo lo impiega nella ricerca di un’armonia confinante con quella di János, l’armonia pura della musica nella quale cerca il sublime e l’eterno.
La sua condizione cambia e lo porta a nuove riflessioni esistenziali quando è costretto dagli intrighi della moglie a uscire di casa. Durante l’inatteso tour cittadino il signor Eszter si rende conto delle terribili condizioni di decadenza e di pericolo in cui versa la città e ciò lo anima di un profondo sentimento protettivo nei confronti del giovane János Valuska che lo accompagna e lo sostiene. Molto intensi nel corso di questa passeggiata sono gli intimi, ma convergenti pensieri dei due. Ambedue cercano di nascondersi vicendevolmente il disagio causato da quella situazione, e ambedue pensano solo a sviare l’attenzione dell’altro dallo sfacelo e dai pericoli che li circondano. La protezione che Eszter vuole offrire a János consiste nel proporgli di restare a vivere con lui, lontano dai pericoli del mondo, ma non riuscirà a esplicitare la proposta e a realizzarla per l’incalzare dei raid dell’orda famelica che quella stessa notte sconvolgeranno la città.
Sermo supra sepulchrum
La terza e ultima parte, molto breve, come la prima, rispetto al corpo centrale dell’opera nella quale si svolge l’intera azione narrativa, segna un cambio di registro. La città guidata dalla signora Eszter (nominata segretario generale della città), oramai pacificata dopo l’arresto o la fuga dei seguaci del Principe e la partenza della sgangherata attrazione circense, è impegnata a celebrare la sua “rinascita” e a commemorare i martiri della rivolta. La neosegretaria, soddisfatta della sua repentina ascesa, mentre si prepara alla pubblica celebrazione, si compiace della sua abilità e ripercorre i giorni difficili dell’attuazione del suo progetto e le difficoltà a cui ha dovuto far fronte; quindi si reca al cimitero dove è attesa dalla cittadinanza rassicurata.
Il sermone è pronunciato dalla Eszter sul feretro della signora Pflaum, madre di János e vittima della notte di cieca violenza. La celebrazione della vittima è un capolavoro di ipocrisia declamato sul registro elevato della responsabilità e del sentimento per ancorare a qualcosa di positivo e dignitoso comportamenti che, alla luce dei fatti, si rivelerebbero negativi e indegni, espressione di egoismo e incomprensione, sete di potere e invidia. Il sermone si conclude con queste parole: «Ti restituiamo alla madre terra, le tue ossa diventeranno polvere, ma non piangiamo, perché conserveremo per sempre la tua anima, solo le tue spoglie mortali potranno essere attaccate dagli operai della distruzione».
A tale epitaffio l’Autore aggiunge una seconda conclusione, quasi un controcanto e una metafora, sotto forma di fredda dissertazione scientifica sulla decomposizione dei corpi dopo la morte, sulle fasi di essa e sugli agenti attivi, chimici e biologici, che la favoriscono. Così, disperatamente, senza alcuna consolazione o speranza, tantomeno quella religiosa che in Satantango era stata se non altro contemplata e subito scartata come opzione possibile.
Ma se in Satantango il tema dell’attesa si era subito colorato di positive, seppur mal riposte, speranze di rinascita, qui l’attesa è fosca e negativa, fatta di presagi sinistri che si accumulano nel tempo e sembrano non lasciare scampo né possibilità di resistenza o salvezza. L’oscura sensazione è acuita dall’arrivo del circo, «con tutte le strane dicerie provenienti dai villaggi vicini che si portava dietro», e con il suo seguito di accompagnatori poco raccomandabili, tanto da diffondere uno stato d’animo collettivo da «città in stato d’assedio dove le persone ritengono ormai vana ogni resistenza». Non a torto, come si vedrà, perché la città, la notte successiva all’arrivo del circo, subisce davvero la violenza cieca e distruttrice della turba di adepti del Principe, i quali, come automi in preda ad una meccanica volontà di annientamento ne eseguono il farneticante credo nichilista.
In realtà tale esito poteva essere evitato. Non lo fu per le sfrenate ambizioni di potere della signora Eszter – «dal passato scandaloso, la dissolutezza dei costumi, e una situazione familiare attuale molto confusa, nota anche per la sua sfacciata arroganza» – moglie del musicologo ritiratosi dalla vita attiva «per dedicarsi esclusivamente alla gioia inesprimibile della rinuncia, a nient’altro», di fatto da esso ripudiata.
A fronte delle forze catastrofiche, operative o ipocritamente intriganti, stanno gli altri due personaggi principali: il signor Eszter e János Valuska, soggetti atipici e fuori contesto, portatori di quella “melancolia della resistenza” espressa nella contemplazione e nella ricerca di armonie, differenti ma pur convergenti, che trascendono le umane faccende e resistono anche «in un mondo totalmente sprovvisto di ragione organizzatrice, privo di ordine se non quello del caos».
Ritorna anche in quest’opera il tema del caos che governa l’universo. Tale convincimento è sviluppato con rigore dal signor Eszter fino alle sue estreme conseguenze. Egli sostiene che «il mondo non si disgregava, non stava cadendo in rovina, poiché a modo suo, totalmente sprovvisto di ragione organizzatrice, privo di ordine se non quello del caos, era eternamente perfetto, quindi bombardarlo ogni giorno con le armi pesanti della ragione … non era solo faticoso», ma implicava anche la necessità di rinunciare al «pensiero libero e lucido in quanto fatale sciocchezza» e di ripudiare la ragione.
Se si rinuncia anche alla ragione e al pensiero – vien da chiedersi – quale senso ha la vita umana?
Eszter risponde che, infatti, non ha alcun senso e che non c’è alcuna differenza tra la vita di qualsiasi altro ente e quella degli esseri umani che non sono «che miseri soggetti di un insignificante fallimento in questo affascinante creato».
Le armonie di Werckmeister
János, considerato un puro idiota dagli abitanti della città e un fannullone scriteriato dalla madre, la signora Pflaum, che lo aveva cacciato di casa, vive con la testa per aria, osserva il cielo e gli astri e si riempie della magnificenza del cosmo nelle sue scorribande notturne per le strade cittadine. Bellissime le pagine dedicate alla dimostrazione della rotazione degli astri fatta in una kocsma a beneficio degli avvinazzati avventori. Egli, ammiratore devoto del signor Eszter e suo utilissimo factotum, seppure «vagabondo, apparentemente svitato, prigioniero di quella galassia trasparente, testimoniava con la sua purezza e la sua toccante generosità umana l’esistenza di una presenza angelica tra le forze distruttrici della decadenza». Tale lo considera il suo protettore e tale si dimostra nel suo ingenuo e fiducioso attraversamento della giornata dell’ira nichilista dell’orda distruttrice e famelica che mette a soqquadro la città. Nelle vicende di quella notte in cui resta invischiato suo malgrado, János è testimone diretto delle distruzioni causate dall’orda e dalla lettura delle pagine scritte da un rivoltoso in un notturno momento di riposo, inorridito per la crudeltà osservata, capisce, uscendo da una sorta di letargico annebbiamento che lo aveva avvolto fino ad allora, che in quell’orda «non c’era, e non c’era mai stato, nulla di soprannaturale, loro e il loro “malvagio” Principe “dotato di poteri magnetici” avevano perso ogni carattere “demoniaco”, all’improvviso il suo sguardo si era per sempre liberato dalle cateratte che l’avevano reso miope, e dall’illusione vergognosamente incantevole che, confinandolo nel meritato ruolo di mezzo scemo, “gli aveva nascosto il vero volto delle cose”». Tale consapevolezza lo travolge e ne decide l’infelice destino.
Il signor Eszter è atipico e fuori contesto per motivi del tutto opposti alla condizione di János. Egli è un intellettuale che, disgustato dal mondo, per non doverne sopportare la volgarità si era volontariamente recluso tra le mura domestiche «perché la vita all’esterno si era trasformata in un panorama di straziante desolazione, [e per] distaccarsi dal pruriginoso bisogno di intromettersi, perché il nobile significato dell’azione era minato da una totale assenza di ragione». Il tempo dilatato del suo ritiro dal mondo lo impiega nella ricerca di un’armonia confinante con quella di János, l’armonia pura della musica nella quale cerca il sublime e l’eterno.
La sua condizione cambia e lo porta a nuove riflessioni esistenziali quando è costretto dagli intrighi della moglie a uscire di casa. Durante l’inatteso tour cittadino il signor Eszter si rende conto delle terribili condizioni di decadenza e di pericolo in cui versa la città e ciò lo anima di un profondo sentimento protettivo nei confronti del giovane János Valuska che lo accompagna e lo sostiene. Molto intensi nel corso di questa passeggiata sono gli intimi, ma convergenti pensieri dei due. Ambedue cercano di nascondersi vicendevolmente il disagio causato da quella situazione, e ambedue pensano solo a sviare l’attenzione dell’altro dallo sfacelo e dai pericoli che li circondano. La protezione che Eszter vuole offrire a János consiste nel proporgli di restare a vivere con lui, lontano dai pericoli del mondo, ma non riuscirà a esplicitare la proposta e a realizzarla per l’incalzare dei raid dell’orda famelica che quella stessa notte sconvolgeranno la città.
Sermo supra sepulchrum
La terza e ultima parte, molto breve, come la prima, rispetto al corpo centrale dell’opera nella quale si svolge l’intera azione narrativa, segna un cambio di registro. La città guidata dalla signora Eszter (nominata segretario generale della città), oramai pacificata dopo l’arresto o la fuga dei seguaci del Principe e la partenza della sgangherata attrazione circense, è impegnata a celebrare la sua “rinascita” e a commemorare i martiri della rivolta. La neosegretaria, soddisfatta della sua repentina ascesa, mentre si prepara alla pubblica celebrazione, si compiace della sua abilità e ripercorre i giorni difficili dell’attuazione del suo progetto e le difficoltà a cui ha dovuto far fronte; quindi si reca al cimitero dove è attesa dalla cittadinanza rassicurata.
Il sermone è pronunciato dalla Eszter sul feretro della signora Pflaum, madre di János e vittima della notte di cieca violenza. La celebrazione della vittima è un capolavoro di ipocrisia declamato sul registro elevato della responsabilità e del sentimento per ancorare a qualcosa di positivo e dignitoso comportamenti che, alla luce dei fatti, si rivelerebbero negativi e indegni, espressione di egoismo e incomprensione, sete di potere e invidia. Il sermone si conclude con queste parole: «Ti restituiamo alla madre terra, le tue ossa diventeranno polvere, ma non piangiamo, perché conserveremo per sempre la tua anima, solo le tue spoglie mortali potranno essere attaccate dagli operai della distruzione».
A tale epitaffio l’Autore aggiunge una seconda conclusione, quasi un controcanto e una metafora, sotto forma di fredda dissertazione scientifica sulla decomposizione dei corpi dopo la morte, sulle fasi di essa e sugli agenti attivi, chimici e biologici, che la favoriscono. Così, disperatamente, senza alcuna consolazione o speranza, tantomeno quella religiosa che in Satantango era stata se non altro contemplata e subito scartata come opzione possibile.
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1 – Dal romanzo è stato tratto il film Le armonie di Werckmeister (titolo della seconda parte dell’opera) del regista Béla Tarr, sceneggiatura dello stesso regista e di László Krasznahorkai.
2 – Leggi la recensione di Satantango qui: https://antonio-elia.blogspot.com/2021/03/satantango.html
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