Alla fine l’ho letto ed è stata una delusione.
Mi è sembrato di aver perso del tempo. Non voglio essere irriguardoso, perché
so quale sia la fatica di scrivere e so anche che un romanzo può essere un
discreto romanzo senza essere un capolavoro. Non l’ho trovato neanche discreto.
Una vera delusione. Che, comunque, non è stata una scoperta inaspettata. Avevo
letto L’amore molesto e, come dicevo
nella recensione dell’8 luglio, la scrittura ha, in molti passi, un che
di artificioso, di ‘molesto’, che appesantisce la lettura e ne frena la
scorrevolezza.
Ne L’amica geniale questo difetto è meno
evidente.
Perché, allora,
neanche questo romanzo mi ha convinto?
Non mi ha
convinto perché la scrittura della Ferrante non ha quella potenza espressiva,
né quella rapidità fulminante o quell’eleganza stilistica o anche la sottile
ironia o la pennellata d’ambiente che fanno una scrittura avvincente e
memorabile.
Sto pensando, per
esempio, a scrittori come T. Pynchon, D. F. Wallace, Don DeLillo, J. Cortazar,
R. Bolaño, T. Bernhard, F. Kafka, J. Joice; o per stare in Italia: Italo
Calvino, Cesare Pavese, G. Manganelli e qui mi fermo, anche se molti altri
potrebbero degnamente figurare nell’elenco.
Né credo che sia
sostenibile il confronto tra la Ferrante ed Elsa Morante o A. M. Ortese,
proprio sotto il profilo dello spessore narrativo.
In tutto il
romanzo non ho trovato una sola frase che colpisce l’immaginazione, di quelle
che sottolinei e riscrivi su un quaderno. Forse una sì. Quando parlando della
Oliviero scrive: La maestra strillò come
sapeva fare lei, con una voce ad ago, lunga e puntuta. Che è una bella
frase, perché te la immagini quella voce e ti sembra di sentirla.
Mi hanno invece infastidito
alcune espressioni tipo: Mi gelai di
paura; Mi sono immaginata; Mi ero dimenticata; Mi cominciò una preoccupazione;
Mi cominciò un sentimento difficile; Mi dispiacqui. Espressioni tratte dal
linguaggio parlato che un po’ stonano in un contesto linguistico che non
utilizza normalmente quel tipo di registro.
E’ una scelta della stessa Ferrante, che non ricorre neanche a espressioni dialettali se non
in cinque occasioni (sempre la stessa: chille
strunz).
Capovolgendo un’affermazione
di N. Lagioia, L'amica geniale non mi sembra “un romanzo di una
modernità assoluta”.
Dove starebbe la modernità? Nel concetto di
interdipendenza tra le due protagoniste (Lila e Lena) e di queste con tutti i
personaggi minori? Ma si è mai letto un romanzo in cui tra i personaggi non ci
fosse interdipendenza, seppure declinata con maggiore o minore enfasi sulla
dipendenza o sull’indipendenza reciproca? Nella vita succede così: i rapporti
interpersonali sono caratterizzati da gradi diversi di interdipendenza; si
qualificano meno frequentemente nel senso patologico e irrisolto che traspare
dal rapporto tra Lila e Lena.
Sotto il profilo
del registro stilistico la scrittura de
L’amica geniale è debole, presenta
tracce marcate, da cui raramente si emancipa in modo evidente, della cronaca
diaristica. Il lungo diario di un’adolescente problematica, che ama lodarsi ed
essere lodata, che soffre se non è sufficientemente lodata, che soffre il
confronto con l’amica ritenuta geniale, ma che poi, in fondo, ritiene meno
geniale di lei; a questo si riduce, a ben guardare, il primo volume della saga
dell’amica geniale. E alla percezione
che le due protagoniste hanno dell’ambiente in cui vivono: estraneo, separato
dal resto della città e impermeabile alle inevitabili interdipendenze,
confinato ai margini e ripiegato su se stesso. Percezione che è abbastanza poco
per rendere chiara al lettore la complessa realtà in cui il rapporto è
inserito.
O è moderno il
concetto di smarginatura? Nuovo, nell’accezione utilizzata nel romanzo, il
termine, lo è. Ma non è nuovo né moderno il concetto. Perché “l’improvvisa dissolvenza dei margini delle
persone e delle cose” che Lila registra nella sua mente, quasi una visione
in cui “il
mondo si scolla davanti agli occhi …, va fuori asse mostrandosi nella sua
insostenibile nudità” (cito sempre dall’intervista all’Autrice di N.
Lagioia), altro non è se non una presa di coscienza, una specie di rivelazione,
di epifania che chiarisce la crudezza della realtà circostante, seppure
confusamente. Ma si tratta di un espediente largamente diffuso in letteratura,
ricorrendo ad artifici diversi: mistici, psicologici, ipnagogici ecc.
O no! O mi sfugge qualcosa?
E allora perché tanto successo? Qual è il fenomeno che
ha spinto in vetta alle classifiche delle vendite un lavoro, a mio avviso,
tanto criticabile?
Credo che ci siano due motivi plausibili sui quali il
successo è stato costruito: la riduzione cinematografica in film di largo
successo dei primi due romanzi scritti dall’autrice; l’alone di mistero che
circonda l’identità dell’autrice. Su di essi è stato costruito il personaggio e
le sue fortune letterarie.
Seppur raccontata con i limiti che ho cercato di
evidenziare, la storia de L’amica geniale,
è, va riconosciuto, una storia interessante e infatti ha
interessato molti lettori, fidelizzandoli alla lettura dell’intera tetralogia.
Con adesioni sempre meno convinte nel passaggio dal primo al quarto volume.
Per parte mia non andrò oltre la lettura del primo
volume.
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