sabato 24 settembre 2016

Recensione di Antonio ELIA

Alla fine l’ho letto ed è stata una delusione. Mi è sembrato di aver perso del tempo. Non voglio essere irriguardoso, perché so quale sia la fatica di scrivere e so anche che un romanzo può essere un discreto romanzo senza essere un capolavoro. Non l’ho trovato neanche discreto. Una vera delusione. Che, comunque, non è stata una scoperta inaspettata. Avevo letto L’amore molesto e, come dicevo nella recensione dell’8 luglio, la scrittura ha, in molti passi, un che di artificioso, di ‘molesto’, che appesantisce la lettura e ne frena la scorrevolezza.
Ne L’amica geniale questo difetto è meno evidente.
Perché, allora, neanche questo romanzo mi ha convinto?
Non mi ha convinto perché la scrittura della Ferrante non ha quella potenza espressiva, né quella rapidità fulminante o quell’eleganza stilistica o anche la sottile ironia o la pennellata d’ambiente che fanno una scrittura avvincente e memorabile.
Sto pensando, per esempio, a scrittori come T. Pynchon, D. F. Wallace, Don DeLillo, J. Cortazar, R. Bolaño, T. Bernhard, F. Kafka, J. Joice; o per stare in Italia: Italo Calvino, Cesare Pavese, G. Manganelli e qui mi fermo, anche se molti altri potrebbero degnamente figurare nell’elenco.
Né credo che sia sostenibile il confronto tra la Ferrante ed Elsa Morante o A. M. Ortese, proprio sotto il profilo dello spessore narrativo.
In tutto il romanzo non ho trovato una sola frase che colpisce l’immaginazione, di quelle che sottolinei e riscrivi su un quaderno. Forse una sì. Quando parlando della Oliviero scrive: La maestra strillò come sapeva fare lei, con una voce ad ago, lunga e puntuta. Che è una bella frase, perché te la immagini quella voce e ti sembra di sentirla.
Mi hanno invece infastidito alcune espressioni tipo: Mi gelai di paura; Mi sono immaginata; Mi ero dimenticata; Mi cominciò una preoccupazione; Mi cominciò un sentimento difficile; Mi dispiacqui. Espressioni tratte dal linguaggio parlato che un po’ stonano in un contesto linguistico che non utilizza normalmente quel tipo di registro.  E’ una scelta della stessa Ferrante, che non ricorre neanche a espressioni dialettali se non in cinque occasioni (sempre la stessa: chille strunz).
Capovolgendo un’affermazione di N. Lagioia, L'amica geniale non mi sembra “un romanzo di una modernità assoluta”.
Dove starebbe la modernità? Nel concetto di interdipendenza tra le due protagoniste (Lila e Lena) e di queste con tutti i personaggi minori? Ma si è mai letto un romanzo in cui tra i personaggi non ci fosse interdipendenza, seppure declinata con maggiore o minore enfasi sulla dipendenza o sull’indipendenza reciproca? Nella vita succede così: i rapporti interpersonali sono caratterizzati da gradi diversi di interdipendenza; si qualificano meno frequentemente nel senso patologico e irrisolto che traspare dal rapporto tra Lila e Lena.
Sotto il profilo del registro stilistico la scrittura de L’amica geniale è debole, presenta tracce marcate, da cui raramente si emancipa in modo evidente, della cronaca diaristica. Il lungo diario di un’adolescente problematica, che ama lodarsi ed essere lodata, che soffre se non è sufficientemente lodata, che soffre il confronto con l’amica ritenuta geniale, ma che poi, in fondo, ritiene meno geniale di lei; a questo si riduce, a ben guardare, il primo volume della saga dell’amica geniale. E alla percezione che le due protagoniste hanno dell’ambiente in cui vivono: estraneo, separato dal resto della città e impermeabile alle inevitabili interdipendenze, confinato ai margini e ripiegato su se stesso. Percezione che è abbastanza poco per rendere chiara al lettore la complessa realtà in cui il rapporto è inserito.
O è moderno il concetto di smarginatura? Nuovo, nell’accezione utilizzata nel romanzo, il termine, lo è.  Ma non è nuovo né moderno il concetto. Perché “l’improvvisa dissolvenza dei margini delle persone e delle cose” che Lila registra nella sua mente, quasi una visione in cui “il mondo si scolla davanti agli occhi …, va fuori asse mostrandosi nella sua insostenibile nudità” (cito sempre dall’intervista all’Autrice di N. Lagioia), altro non è se non una presa di coscienza, una specie di rivelazione, di epifania che chiarisce la crudezza della realtà circostante, seppure confusamente. Ma si tratta di un espediente largamente diffuso in letteratura, ricorrendo ad artifici diversi: mistici, psicologici, ipnagogici ecc.
O no! O mi sfugge qualcosa?
E allora perché tanto successo? Qual è il fenomeno che ha spinto in vetta alle classifiche delle vendite un lavoro, a mio avviso, tanto criticabile?
Credo che ci siano due motivi plausibili sui quali il successo è stato costruito: la riduzione cinematografica in film di largo successo dei primi due romanzi scritti dall’autrice; l’alone di mistero che circonda l’identità dell’autrice. Su di essi è stato costruito il personaggio e le sue fortune letterarie. 
Seppur raccontata con i limiti che ho cercato di evidenziare, la storia de L’amica geniale, è, va riconosciuto, una storia interessante e infatti ha interessato molti lettori, fidelizzandoli alla lettura dell’intera tetralogia. Con adesioni sempre meno convinte nel passaggio dal primo al quarto volume.
Per parte mia non andrò oltre la lettura del primo volume.  





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